Una settimana fa è uscito in America un libro, “Everything Bad is Good For You”. L’autore – Steven Johnson – è uno studioso delle culture moderne, collabora con diversi giornali, ha un suo blog assai popolare: il New York Times ha anticipato un capitolo che ha suscitato molta curiosità. Il libro analizza l’efficacia nella formazione dell’intelligenza e dell’elasticità intellettuale di alcuni contenuti della comunicazione contemporanea, soprattutto presso i giovani e con un’attenzione prevalente ai videogames. Ma la parte anticipata dal New York Times era dedicata alla televisione. Le idee espresse sono sostanzialmente due, strettamente legate. La prima è che i contenuti della televisione stiano da tempo progredendo verso una maggiore complessità: finito è il tempo in cui il modello televisivo prevedeva uno spettatore totalmente passivo e attratto da cose che non gli richiedessero alcun impegno mentale. Se guardiamo le serie tv degli ultimi anni – 24, CSI, I Sopranos – vediamo che gli intrecci sono straordinariamente più elaborati di quanto avveniva vent’anni fa (“Oggi Dallas sarebbe noiosissimo”), e pieni di vuoti da riempire. Lo stesso vale per i programmi più “bassi”: anche i reality show richiedono allo spettatore una capacità di elaborazione di situazioni mai identiche e prevedibili. L’idea che ne consegue è che la scelta dei programmi da consigliare ai ragazzi, per esempio, non debba dipendere tanto dai contenuti, quanto dal grado di concentrazione e adattamento che richiedono. Tornando al wrestling, per capirsi, il problema non sarebbe la violenza: è che non ci sia niente da capire.
Vanity Fair