163 parole. Su 6300. Le hanno contate. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione il Presidente Bush ha dedicato al post Katrina e a New Orleans un quarantesimo del testo totale del testo. Le hanno contate e si sono un po’ seccati, al Times Picayune, il quotidiano di New Orleans che ogni giorno ne ha per tutti i responsabili della gestione della ricostruzione, dal sindaco, al FEMA, al Corpo degli Ingegneri, al Governatore della Louisiana, all’amministrazione Bush, appunto.
In che condizioni è New Orleans?, è la domanda che ti fanno se torni da New Orleans. Comprensibile. Se la sono fatta anche a GQ, il giornale che mi ha chiesto di andare a vedere, e gentilmente consentito a che anticipassi queste righe al Foglio. La risposta è che New Orleans è in molte condizioni diverse, che vanno dalla totale distruzione e abbandono delle aree a ridosso del Canale Industriale ad apparenze quasi del tutto indenni nei quartieri centrali: e con molte sfumature tra i due estremi. Il lower ninth ward, il quartiere meno protetto, a una quota più bassa, che fu il primo a essere colpito dalla rottura degli argini del Canale Industriale, è ancora oggi come se lo avessero bombardato. Rare case in piedi e malconce, le altre sfracellate: per circa dieci chilometri quadrati. Il vecchio quartiere francese, leggermente più in alto e meglio protetto dagli argini del Mississippi, è più bello che mai e pronto ad accogliere I festeggiamenti del Mardi Gras, seppure in tono minore. Il Garden District – quello costituito da isolati regolari occupati da meravigliose case di legno del Sud con quercia, veranda e tutto il repertorio – ha subito dei danni la cui riparazione va ultimandosi. Ogni giorno riaprono negozi, locali, servizi pubblici. Chalmette, colpita in seconda battuta dalla tracimazione del canale (la rottura degli argini ha colpito quattro canali maggiori, il resto lo ha fatto il lago Pontchartrain che chiude a nord la città), ha avuto danni pesantissimi, ma essendo un quartiere bianco più ricco del Lower Ninth Ward, ha già intrapreso ampi lavori di ricostruzione. Gli altri quartieri vicini al canale e al lago (è da lì, appunto, che è venuta l’inondazione, non dal Mississippi), sono in diverse fasi di ricostruzione: in alcuni casi inesistente, in altri ben avviata. Le variabili dipendono dal passato e dal futuro: se in passato avevi I soldi per fare una buona assicurazione sulla casa, se in passato avevano rinforzato l’argine vicino al tuo quartiere, se in futuro questo argine sarà ricostruito e come, se in futuro i tuoi vicini decideranno di ricostruire (in alcune zone, è stato lanciato un appello per contare se il numero degli intenzionati a tornare sia sufficiente a fermare I bulldozer), se in futuro ci saranno dei soldi pubblici per ricostruirlo.
E qui sta il nodo centrale. Bush ha bocciato la settimana scorsa il piano del deputato repubblicano Richard Baker che chiedeva fondi federali per comprare I terreni di più di duecentomila case distrutte, e permettere ai proprietari di ricominciare altrove. La decisione ha provocato una grossa delusione in città e sulle colonne del Times-Picayune, considerato che Baker è sempre stato un fedele sostenitore dell’amministrazione. Le questioni in ballo sono molte: quali zone della città sia sensato ricostruire, come migliorare le difese da nuovi uragani (c’è molta preoccupazione già per la stagione che sta per arrivare e la vecchia scelta di non costruire chiuse allo sbocco dei canali nel lago è stata responsabile della maggior parte dei danni, provocati dal riflusso delle acque del lago), quali alternative offrire agli sfollati. Su una cosa sono tutti d’accordo: la nuova New Orleans (che oggi ospita un terzo del mezzo milione di abitanti che aveva prima del 29 agosto) sarà più piccola della vecchia, forse la metà. Anche se molti hanno criticato un’impostazione che faceva di necessità virtù prevedendo di non far rientrare una grande parte di popolazione nera e meno ricca (il Lower Ninth Ward, raso al suolo, ospitava solo neri e notevoli percentuali di poveri e di microcriminali: non era una baraccopoli, ma un quartiere di casette di legno più o meno dignitose o antiche). Per negare questa intenzione, il sindaco Nagin – un nero ex businessman arricchitosi con le reti televisive ed eletto grazie all’immagine di “uomo nuovo” – ha pronunciato il mese scorso le parole che ne hanno fatto lo zimbello della città e del paese: “questa tornerà a essere una chocolate city”. Ha detto proprio così, una chocolate city: nel 2006, un nero ricco parla dei neri come cioccolatini. Gli stanno ancora ridendo dietro, quelli che non si sono proprio indignati, bianchi e neri. Le magliette “Ray Nagin and the chocolate city” sono ovunque, e se alle elezioni di aprile Nagin ha ancora delle chances – dopo aver deluso tutti nei giorni dell’uragano e nei successivi: in questi giorni una commissione d’inchiesta a Washington lo sta friggendo, insieme ai responsabili dell’amministrazione Bush – è perché non si è ancora capito chi saranno i suoi rivali.
In questa situazione di stallo istituzionale, la città cerca di rinascere da sola, per quel che può: è tornata la Shell, che qui dà lavoro a un sacco di gente; a marzo rientrano per tre partite gli Hornets, la squadra di basket che ha traslocato a Oklahoma City (dove i giocatori vincono più dell’anno scorso e dicono di trovarsi piuttosto bene); dovrebbero riaprire alcune linee dei tram (finora funziona solo quello di Canal Street); lo scorso weekend il French Quarter aveva una discreta circolazione di turisti, e gli addobbi carnevaleschi sono già ovunque. Se parli con quelli che sono riusciti a restare, o a rientrare, molti sono ottimisti e se gli fai notare che quelli sfollati in mezza America (nella concitazione della messa in salvo, ad agosto, alcuni salirono su un aereo e si trovarono in Alaska) forse non sono così contenti, ti spiegano che la città potrebbe approfittarne per liberarsi del suo peggio. Suona molto brutto, ma l’ho sentito dire da bianchi e neri, vecchi e giovani, che ultimamente New Orleans era diventata un “mattatoio”: la criminalità era altissima, intense le guerre tra gang, e la media era di 250 omicidi l’anno nell’ultimo decennio. Adesso, nei cinque mesi dopo Katrina ce ne sono stati otto (ma due la settimana scorsa). Nel frattempo, i giornali riferiscono che a Houston – una delle città che ospita più sfollati – si sono già ricreate le stesse guerre tra gang rivali di New Orleans, traslocate là e già pienamente operative. Per le strade di New Orleans, intanto, circolano molte macchine della polizia (e ancora alcuni mezzi militari, e soldati in mimetica), forse per recuperare credito dopo i fallimenti dei giorni dei soccorsi (si dimise il capo della polizia in una evidente crisi di nervi, e disertarono cinquecento agenti, mentre i loro colleghi si arrabattavano senza nessun coordinamento a portar via le persone dalle case). In Canal Street, gru e ruspe fanno un gran baccano da mattina a sera per rimettere a posto l’arteria principale della città, i suoi alberghi, e le vetrine delle catene internazionali distrutti dai saccheggi di cinque mesi fa. Alla conta finale, saccheggi e disordini furono molto più limitati di quanto si era strillato allora, e i pericoli vennero aggravati dal panico seminato da alcune dichiarazioni allarmistiche – “stuprano i bambini”, disse l’allora capo della polizia, senza averne alcun indizio – che spinsero alcune teste calde ad aggirarsi per la città conciati da Rambo. Lo stesso vale per la conta dei morti per l’uragano, che il sindaco annunciò oltre i diecimila e a oggi sono poco più di mille in città, e 1417 in totale. Di tremila persone non si ha notizia, e si stima che un decimo possano essere morte.
Ma l’impressione di rinascita, sostenuta da cartelli, slogan, striscioni (in una città in cui il culto della morte, col voodoo eccetera, ha sempre avuto uno spazio notevole), si perde appena ci si allontana dai quartieri più centrali. Tutto intorno i danni sono ancora ben vistosi, anche senza spingersi fino allo spettacolo di sbricolamento del Lower Ninth Ward, paradiso dei fotografi venuti da fuori. Quartieri disabitati, cose ferme, silenzio. In molte strade, la sera, buio pesto. Sui binari del tram di St. Charles Street, la linea principale della città, passa solo qualche jogger. Gli alberghi che funzionano sono pieni di senza tetto, ma il FEMA ieri ha dato un ultimatum: trovatevi un’altra sistemazione, le roulotte non sono garantite a tutti. Gli albergatori, d’altro canto, chiedono di tornare a lavorare regolarmente in tempo per il carnevale. Al distributore Shell di Lee Circle ogni mattina si radunano i messicani in attesa dei caporali – ma anche dei privati – che raccolgono lavoratori. E in effetti sui tetti del Garden District, quelli che inchiodano e rammendano si gridano tutti cose in spagnolo. La città ricca non si preoccupa dell’eventuale perdita di classe lavoratrice nera: ci sono file di latinos pronti a lavorare e a creare meno problemi.
Fuori città, centinaia di migliaia di ex abitanti di New Orleans aspettano di sapere quale sarà il loro destino. Molti si sono ormai disposti a non tornare più: malgrado New Orleans induca nei suoi residenti un amore che ha pochi uguali nelle altre città americane (è una città stupenda e accogliente, se volete il mio parere), l’inclinazione nazionale alla mobilità e la rassegnazione per molti prevalgono. In alcuni stati, come il South Carolina, l’organizzazione dell’ospitalità è stata così efficiente da alleviare il dolore della separazione. Ma la gran parte di quelli che abitavano tra il Mississippi e il lago Pontchartrain aspetta di sapere cosa si deciderà di fare del terreno dove un tempo c’era la casa: verrà protetto da argini più forti? Verrà espropriato per costruire argini più forti? (Bucktown, antico insediamento sul lago, sarà abbattuto per costruire una chiusa sul canale). Verrà comprato, e per quanto? Verrà abbandonato a se stesso? Nei weekend arrivano in macchina a dare un’occhiata alle rovine, a tirar via moquettes marce, a recuperare ancora qualcosa, e a scrutare perplessi lo scenario commentandolo con gli ex vicini.
Con Bush sono abbastanza incazzati: finora I fallimenti nei soccorsi, negli aiuti, nella ricostruzione, venivano ricondotti a questo o a quell’organismo senza raggiungere direttamente la Casa Bianca, ma la bocciatura del piano Baker, che aveva ottenuto il sostegno più largo finora, è stata vissuta molto male, soprattutto in assenza di una proposta alternativa. E poi è arrivato il discorso sullo Stato dell’Unione. 163 parole.