Non c’è niente che non sia stato già detto. Le mie riflessioni sui disastri creati dall’espressione “sii te stesso”, ho scoperto stamattina, avevano illustri precedenti.
“‘Be yourself’ is about the worst advice you can give to some people.” — J.B. Priestley, British novelist (born this date in 1894, died 1984).
Per non dire de “Il libro nero” di Pamuk (che gli ci vogliono più o meno 500 pagine per dire la stessa cosa, anche se da grande narratore)
Brevemente: se Steve Jobs non avesse seguito “il peggior consiglio” cosa sarebbe? Laureato, bravo professionista con l’hobby della programmazione?
Se Gandhi fosse stato più rispettoso delle autorità politiche?
Essere se stessi è un ottimo punto di partenza per migliorarsi; se si è convinti di essere già buoni, ed invece si è stronzi, difficilmente si può essere migliori in modo efficace. Se uno è se stesso, sincero con se stesso, e si vede irascibile, magari per educazione familiare (come riporti: Gesù), magari evita situazioni irritanti.
Terzo: essere se stessi non significa avere il diritto di essere accettati come tali.
E se non si è se stessi chi si deve essere? Quello che dicono i genitori? Buoni religiosi? Rivoluzionari crudi e puri?
Forse versioni migliori di noi stessi, ma sempre da un punto bisogna partire.
Infatti, Priestley dice che è il peggior consiglio che si possa dare ad alcuni. Ad altri invece bisogna, se possibile, obbligarli in tutti i modi ad essere stessi, a non sprecare il proprio talento.
Penso anche ad alcuni dei migliori episodi di “The West Wing” dove il team sprona Bartlett a essere se stesso.