Sono andato al primo concerto dell’ultimo tour di Ivano Fossati, a Milano. Avendo lui, come si sa, annunciato che poi smetterà di suonare. Che poi magari cambierà idea, come capita spesso (e sulle difficoltà di mantenere simili proponimenti c’è anche il bel libro nuovo di Alessandro Baricco), e allora le band fanno i tour della “reunion”: ma i solisti, come lo chiamano quando tornano a suonare, di nuovo da soli?
Comunque, Fossati dà soddisfazione e fa un sacco di canzoni vecchie, anche se poi alla fine ti restano sempre in testa quelle che non ha fatto. Io ne ho una, che non è di quelle che si dicono sempre (La costruzione di un amore, su tutte: e quella la fa), che mi sono chiesto perché mi piaccia tanto: forse quel trascinare le vocali, forse che una volta la mettemmo in un documentario a cui lavorai, che parlava dell’Argentina: e si chiama, appunto, Italiani d’Argentina.
“Abbiamo l’aria di italiani d’Argentina”, dice. L’ho ripensata molto, in questi anni, perché quel sentimento lì di malinconia distante, di essere altrove con qualcosa che ti manca, rassegnati – “e nessuna fotografia ci basterà” – quella cosa lì è diventata il modo in cui spesso ci siamo sentiti in questi anni, anche senza essere dall’altra parte del mondo. Abbiamo tutti un po’ l’aria di italiani d’Argentina.
Abbiamo l’aria di italiani d’Argentina
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Ci sentite da li…? Splendida.
“Abbiamo l’aria di italiani d’Argentina”.
Nel senso che siamo anche noi sotto default?
Sarà, ma ho sempre avuto il dubbio se l’Argentina esiste.
E ora, con che scarpe attraverseremo queste domeniche mattina?
Tanti anni fa, alcuni miei parenti emigrarono in Venezuela, ed ebbero tanta nostalgia dell’Italia. Poi, quando tornarono in Italia, l’ebbero del Venezuela. Non bastiamo mai a noi stessi!