L’insediamento di Obama, la prima volta

Dall’insediamento di Obama del 2009 mi venne l’idea di mettere insieme un po’ di pensieri che furono l’unico libro di qualche completezza e articolazione che abbia mai scritto. Facevo il giro largo (col tram), ma a quello arrivavo e da quello partivo e con quello finivo.

I tram di Milano hanno degli orari. Quando ci venni a vivere fu la prima cosa che notai, assieme al fatto che a Milano non c’è la nebbia. Nella città di provincia da cui venivo si aspettava l’autobus fino a quando non passava. Va’ a sapere quando. Se c’era già una signora alla fermata le si chiedeva «è tanto che aspetta?», così, per regolarsi.
Mi piacque questo di Milano. Sul palo della fermata c’era – c’è tuttora, ma oggi anche in altre città – una bachechina rovinata dalla pioggia che mostrava gli orari di passaggio di tutte le linee da quella fermata. Ovviamente non era solo questo, che potevano essere capaci tutti. La cosa davvero pazzesca è che a quell’ora lì, quella che c’era scritta un po’ sbavata sulla bachechina, il tram arrivava davvero.
Lo so cosa state pensando: «Quando c’era Lui i tram arrivavano puntuali». In effetti, vivo a Milano da dieci anni ormai, e ho avuto modo di moderare quella mia fiducia nella puntualità dei tram. La statistica richiedeva dati più numerosi e distribuiti, e una pratica di attesa del tram più quotidiana e prolungata. Ci sono state volte in cui sui nuovi pannelli luminosi che hanno sostituito le bachechine mi sono trovato a leggere «tempo di attesa: 19 minuti» per la circolare del 29, la linea più importante della città. E altre in cui quel tempo di attesa era disatteso e alla mia domanda se fosse il caso di fidarsene, il tramviere rispondeva semplicemente «no».

Può darsi che i servizi pubblici siano peggiorati, nella città in cui vivo: in effetti le ultime amministrazioni hanno offerto parecchi esempi di una tendenza in questo senso. Ma per un momento ai miei occhi si è manifestata l’eventualità che in una città italiana le cose funzionino come ci si aspetta. Anzi, come non ci si aspetta. Non è una bella sensazione?
Sono sul tram 29/30 e sto tornando a casa in un freddo pomeriggio di gennaio. La linea ha due numeri perché dovrebbe essere una circolare e chiamarsi con un numero diverso a seconda del senso del giro. Uso il condizionale perché non è più «circolare» da anni, il tracciato interrotto da lunghi e successivi cantieri dovuti alla preparazione dell’Expo del 2015 o chissà cos’altro. Se il milanese sopporta con pazienza i lavori per l’Expo è perché non sa distinguerli dai lavori che c’erano prima. Ma tornando al numero, un tempo il 29 andava in senso orario e il 30 in senso antiorario. O viceversa, vatti a ricordare. Poi per semplificare hanno cominciato a indicare tutti i mezzi della linea col doppio numero, che andassero in un verso o nell’altro, e ora di fatto si chiamano tutti così. È un peggioramento o un miglioramento? Non so: direi che si sopravvive, è solo un po’ scomodo da dire «passa di qui la ventinovetrenta?».

Comunque sono sul tram, e potrei scendere due fermate prima per andare a comprare il pane e la focaccia appena sfornati, ma sono un po’ in ritardo. Voglio arrivare a casa in tempo per seguire in tv o su internet il discorso di insediamento di Barack Obama. Quindi rinuncio alla focaccia. Barack Obama è importante. Il tram è fermo al semaforo di piazzale Baracca.

Avevo passato la notte che Obama era diventato presidente degli Stati Uniti assieme a un gruppo di amici tra i trenta e i quarant’anni. Alle cinque del mattino ci eravamo abbracciati e avevamo brindato. Avevamo scherzato un po’ sull’ultima gioia di questo genere di cui ci ricordavamo – i Mondiali dell’82, ma alcuni erano troppo piccoli – e avevamo quindi convenuto che questa fosse la cosa più bella capitata al nostro mondo dal 1989, era novembre anche allora. Qualche ora prima, la tensione della vittoria che non arrivava ancora era stata alleggerita da un servizio di Porta a Porta che si apriva sulle «somiglianze tra Obama e Berlusconi» e proseguiva sostenendo che tra i primi sostenitori di Obama in Italia c’erano stati i ministri Sandro Bondi e Maria Stella Gelmini. Era stato il più clamoroso momento di incongruenza tra quanto stava accadendo davvero e le persone che lo commentavano in televisione: il mondo com’è e l’Italia come si mostra. La vittoria di Barack Obama, quella notte, era stata la prima grande gioia storica della generazione dei trentenni. Gli osservatori tradizionali nel circo italiano l’avevano paragonata alla caduta del Muro, allo sbarco del primo uomo sulla luna, o persino – e non erano pochissimi – alla fine della guerra mondiale. Passioni a cui parteciparono, eventi che avevano travolto le loro vite e le loro emozioni, ormai corrose dall’età e dal disincanto nel momento in cui un nero diventava presidente degli Stati Uniti. Avevano fatto ricorso a tutto il loro repertorio di esperienze e di cliché per analizzare quello che era successo quella notte: ma semplicemente non era più roba loro. La vittoria di Barack Obama era di quelli che avevano l’età di Barack Obama, e di quelli che ci avevano investito tutte le speranze e gli altruismi che fino ad allora non avevano mai avuto l’occasione di tirar fuori e che il tempo non aveva ancora sbriciolato. Loro lo capivano e appartenevano a quello che stava succedendo, alla retorica sincera della speranza e del migliorare il mondo che era nei suoi discorsi, alla modernità che era stata nella sua campagna, alla leggerezza poco pomposa che stava nelle sue discrete consapevolezze, a una comunicazione fatta di immagini e condiviso interesse per il futuro. Erano loro che quella nottata l’avevano seguita sui blog e in rete, che si erano congratulati con migliaia di mail, che avevano festeggiato assieme dai quattro angoli del mondo; che avevano saputo cogliere il senso di ogni nuovo dato e non si erano fatti ingannare da notizie sbagliate o male interpretate, come nel frattempo avveniva nei talk show televisivi. Erano loro che si erano abbracciati, quella notte, ed erano stati felici di una cosa che neanche li riguardava, a giudicarla con lo sguardo distaccato dei loro padri. Felici di una gioia vera, buona, lieve delle soddisfazioni incattivite e «contro» che gravano spesso sugli altri eventi con cui hanno a che fare. Non era per la sconfitta di Bush, che erano felici, né per lo smacco dei bianchi razzisti: e il rivale McCain lo avevano persino apprezzato e molto. Erano invece felici perché questa era una cosa che sentivano finalmente dentro il loro tempo, una cosa che era come loro, e che conoscevano. Il mondo di fuori adesso sembrava assomigliare al loro mondo, la vita del mondo alle loro vite, non erano più controcorrente: almeno fino a che non avessero rimesso testa e piedi sul suolo italiano. Obama era uno di loro, e uno dei migliori. Quella notte avevano messo piede sulla luna anche loro, finalmente. Ed era tutta un’altra luna.

Il tram è arrivato alla mia fermata. Raggiungo il portone di casa, salgo, e mia moglie è già davanti alla televisione.
Il discorso di insediamento di Obama durò diciotto minuti e diciotto secondi. Fu un discorso bello ed eccitante, ma anche molto generico, enfatico. Fu un discorso retorico. Lo ascoltavo dire cose come «nel riaffermare la grandezza del nostro paese», lo ascoltavo incitare gli Stati Uniti a essere ancora il grande paese che erano sempre stati.

America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti.

E ascoltavo Obama dire:

Ora, ci sono alcuni che contestano le dimensioni delle nostre ambizioni – pensando che il nostro sistema non può tollerare troppi grandi progetti. Costoro hanno corta memoria. Perché dimenticano quel che questo paese ha già fatto. Quel che uomini e donne possono ottenere quando l’immaginazione si unisce alla volontà comune, e la necessità al coraggio.

Ascoltavo questo fiume appassionante e commovente di retorica, e mi domandavo:
Perché noi no?
Perché.
Noi.
No?
Me lo chiedo da allora. Ho provato da quel giorno molte volte a figurarmi un pubblico di italiani, o anche a figurarmi tutti gli italiani, all’ascolto di un simile discorso rivolto a loro e all’Italia. È un pensiero banale, tanto è vero che ha attraversato il dibattito politico e giornalistico fino a diventare una specie di tic dialettico: «Ci vorrebbe un Obama anche in Italia». Lo si è detto in lungo e in largo, si sono fatte riflessioni, ricerche, giochini, analisi. Alla fine è diventato un intercalare: «Buongiorno, come va?», «Eh, ci vorrebbe un Obama anche in Italia». E ha perso anche quel po’ di senso che aveva: perché è vero che questo è un paese diverso e i suoi problemi sono altri, ma è anche un po’ vero che ogni cambiamento ha bisogno di un innesco, o di una guida. Nessuno pensa che in Italia ci voglia un avvocato di Chicago nero: piuttosto, che un leader – o anche più d’uno – capace di motivare un popolo stanco ed egoista, male non farebbe. Certo, poi ci vorrebbe anche altro, e diverse impostazioni, che non tutti i problemi hanno la stessa soluzione: a meno di non usare «Obama» come sinonimo di «soluzione» e allora però la frase diviene quasi tautologica. Diventa la ricerca di una soluzione per ogni cosa, che è un diverso problema. Ma scavalchiamo quel tic – questo faccio da allora –, e proviamo non a immaginare cosa farebbe un Obama italiano, ma cosa farebbero gli italiani di fronte a un Obama italiano. Uno che voglia «riaffermare la grandezza del nostro paese». Uno che – ammesso che abbia vinto le elezioni – dica loro:

Italia. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti.

Proviamo a pensarci. Piazza Venezia. Non so. Scegliamo un luogo equivalente a quei grandi spazi monumentali che a Washington rappresentano e simboleggiano la grandezza della nazione: Circo Massimo? Piazza Navona? Piazza del Popolo? Sono tutti luoghi che c’erano già prima, prima che ci fosse l’Italia, prima della Repubblica, luoghi di altre storie. Per dare una piazza istituzionale a un grande presidente contemporaneo bisognerebbe andare all’Eur – un po’ fuori mano, e poi c’è la questione del Ventennio, e ci torneremo – oppure sull’Altare della Patria. Sul tema della patria c’è molto da dire, appunto: ci sono delle complicazioni, ma per ora accantonatele e fate finta che un discorso in piazza Venezia sia solo un discorso in piazza Venezia. Se può aiutarvi, dimenticate il balcone, e dimenticate anche l’Altare della Patria: anche se è là che siamo diretti, nei prossimi vent’anni. Ma per ora, per il punto da cui partiamo, il luogo giusto da cui tenere il discorso davanti a una piazza affollatissima è un altro, più contemporaneo, più sinceramente italiano, più familiare all’ultimo secolo e più densamente evocativo: sul lato opposto del Milite Ignoto, davanti a via del Corso, c’è la pedana del vigile. La pedana del vigile, quella da cui solo una grande italica sapienza può governare ciò che è più ingovernabile nella italica capitale: il traffico di Roma. E con grazia ed eleganza. Elevata, ma modesta. Bel simbolo, bella metafora: e ben rappresentata nella cultura pop delle ultime generazioni, a cominciare dal film con Sordi.
Insomma, il podio più significativo di sessant’anni di Repubblica, e l’episodio berlusconiano del predellino ne è stato un grigio ma efficace surrogato milanese. Questo è un paese da radunare ai crocicchi.

Bene, ecco quindi il nostro Obama italiano che con la forza della sua oratoria e il fascino della sua persona dice agli italiani, da quella pedana:
In quei momenti, l’Italia è andata avanti non solo grazie alla bravura o alla capacità visionaria di coloro che ricoprivano gli incarichi più alti, ma grazie al fatto che noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali. Così è stato finora. Così deve essere per questa generazione di italiani. Oggi vi dico che le sfide che abbiamo di fronte sono reali. Sono serie e sono numerose. Affrontarle non sarà cosa facile né rapida. Ma Italia, sappilo: le affronteremo.
Il nostro nuovo presidente dice queste cose, di fronte a una folla di italiani. Italiani normali, dico, suoi elettori: non gruppi di esaltati che farebbero il saluto romano anche di fronte a una balla di fieno. E che cosa fanno gli italiani, davanti a lui? Tacciono, ammutoliti e commossi? Urlano «Sì! Sì! Ben detto», in un tripudio di partecipazione? Si riempiono il cuore di quelle parole, le parole che avrebbero voluto sentirsi dire da sempre, che sanno di meritare, che raccontano loro stessi e le loro speranze? Vanno a casa fieri e motivati, digerendo ogni parola? Che fate, voi? Che facciamo quando il nostro presidente ci parla così?
Ecco che facciamo. Facciamo le foto col telefonino, intanto. E ascoltiamo pure. Ma poi ci guardiamo intorno spaesati. Cominciamo a darci di gomito. Questo è fuori di melone. Di chi sta parlando? Ci giriamo all’indietro: «Italia?». Ma con chi parli? «Il popolo»? «Affrontiamo»? Noi? Ma ci hai visti? E da dove l’hai tirata fuori questa «grandezza del nostro paese»? O stai ancora parlando di Leonardo, della pizza, e del Nobel a Montale?

Mentre ascoltavo Barack Obama, quel giorno là, il giorno dell’inaugurazione, una metà di me pensava «bravo, questo è parlare, questo è scaldare e animare una nazione, questo è farle ritrovare la parte migliore di sé». Ma un’altra metà di me gli diceva: «Bravo, bella forza: fai presto a recuperare la grandezza del tuo paese; facile ricordare agli americani la loro capacità visionaria; son buoni tutti a dir loro “siamo stati grandissimi, dimostriamo di esserlo ancora”. Persino George W. Bush seppe dirlo in modi convincenti. Ma vieni a dirlo agli italiani, se sei tanto bravo. Vieni a dirlo a noi che siamo un grande paese, vieni a dirci che lo siamo sempre stati, e che possiamo tornare a esserlo. Vieni, e fai la faccia seria, se ci riesci. Provaci qui. E poi ne parliamo».

Il 31 ottobre 2010 due popolari comici americani, Jon Stewart e Stephen Colbert, organizzarono a Washington in una bella giornata di sole una «Manifestazione per il buonsenso». Era un po’ per scherzo ma anche no: volevano, con leggerezza, mostrare che c’erano degli americani che pensavano che l’escalation di bugie politico-mediatiche, di allarme e paura su ogni cosa, di aggressività permanente, non facesse bene al loro paese. Fu un discreto successo, con decine di migliaia di persone, e l’occasione di dire cose sagge in modo spiritoso ed efficace.
La giornata fu seguita su internet anche da diversi italiani, e poco più tardi molti stavano scrivendo su Twitter e Facebook gli stessi pensieri che avevo avuto io quella volta di Obama: perché noi no? Perché noi no la bandiera e l’inno? Perché noi no la rivendicazione del buonsenso e della ragionevolezza? Perché noi no l’efficacia e la perfezione della costruzione di un evento e di un messaggio così? In coda a questo genere di riflessioni, mentre la manifestazione finiva, Mario Tedeschini Lalli, giornalista della vecchia guardia internettara di «Repubblica», scrisse su Friendfeed della folla che in chiusura scandiva «U-S-A, U-S-A!» e di come gli fosse impensabile che a un evento simile in Italia si gridasse «I-ta-lia, I-talia!». Già.

Adesso, forse, state pensando che siamo pericolosamente vicini a Massimo D’Azeglio: «L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani». Pericolosamente, sì, perché ogni evocazione di retorica, o di patriottismo, o di cose già sentite è perdente e vulnerabilissima, di questi tempi. Siamo scettici, siamo cinici, siamo vaccinati: ne abbiamo viste. Figuriamoci se poi si tratta di un’evocazione di retorica e anche già sentita, e anche di patriottismo. Però è un problema che dovremo affrontare e superare, in qualche modo: dovremo trovare un modo per toglierci questo cappotto di cinismo che avvilisce ogni cosa e appoggiarlo su una poltrona, da qualche parte. Toglierlo di mezzo no, che non si potrà mai più, e certi giorni torna buona una dose di disincanto: ma trovare il coraggio di toglierselo dalle spalle, quando ci sono cose importanti da fare e da dire, e fuori sta uscendo il sole. Allora il primo problema sarà un problema di linguaggio: di come chiamarla, questa roba che una volta si chiamava patriottismo e ora è una parola che nun se po’ senti’. E che non si possa sentire è giusto, e anche che non si possa usarla, perché il patriottismo era un’altra cosa, e chi pretende di ricostruirlo com’era pretende una sciocchezza perdente. Separare il patriottismo dal nazionalismo, come si è detto a lungo, o separarlo dal ridicolo, sono battaglie perse. Quello che bisogna cercare di fare è costruire qualcosa di simile e buono in un mondo cambiato, non di certo pensare di trattenere il cambiamento facendo finta di niente e riscoprendo «la patria». Il cambiamento si governa cambiando. E che il linguaggio sia una delle prime cose su cui lavorare lo dice l’equivoco possibile sulla stessa frase di D’Azeglio, «bisogna fare gli italiani»: equivoco che mi si rivelò quando all’aeroporto di Boston due ragazzini toscani superarono la fila alla cassa del bar e vennero ripresi dai loro stessi genitori con questa frase: «Non fate gli italiani». «Ora non bisogna fare gli italiani» rischia di essere oggi il motto delle persone perbene in questo paese. Eppure quelle persone ci sono, sono tante, e un simile motto è testimone di buone e pedagogiche intenzioni: ha un solo difetto, ed è che è il motto di una sconfitta. La verità è che questo libro vuole dire quella cosa lì, quella che più di un secolo fa disse Massimo D’Azeglio. Ma non la vuole solo dire, come fanno in molti da decenni per usarla al contrario («gli italiani non si faranno mai») come alibi saccente per i fallimenti con cui giustificare la propria inclinazione a lavarsene le mani: «Ah, signora mia, bisognerebbe fare gli italiani…», o «Gli italiani sono fatti così, non possiamo farci nulla». E giù migliaia di sbrigative lezioni sul fatto che siamo un paese cattolico e non protestante, e quindi non abbiamo il senso del dovere e pensiamo che tutto possa essere perdonato con un’Ave Maria e che il premio non arriva in terra (come la punizione).

Ma D’Azeglio non disse, a differenza di quelli che lo citano, «L’Italia è fatta, ma non riusciremo mai a fare gli italiani». Disse: «Bisogna fare gli italiani». Non era più ingenuo di noi: però pensava che si debba fare ciò che è giusto, come Friedman. E nella differenza tra riconoscere in questa frase una sola verità – «gli italiani sono ancora da fare» – o due – «bisogna farli, cazzo!» – stanno i ragionamenti di questo libro.

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