Stili

Ho ritrovato questa cosa vecchia di molti anni che scrissi sulla sconfitta di Al Gore come parodia di uno stile di scrittura giornalistica che nel frattempo in Italia è dilagata, e ha stravinto. Ora sembra quasi un articolo normale, se siete abituati a leggere i quotidiani.

Solo, nella roccaforte delle sue ambizioni scompaginate ormai ridotta a un vischioso pantano, Alistair Grant Gore, le truppe piegate ai piedi di ogni corte degli Stati Uniti, aspetta un sostegno, un conforto, da un paese smarrito come lo è lui, e che lui stesso ha voluto portare, invaghito di un sogno infranto, sull’orlo di un baratro istituzionale mai immaginato. Ma l’America ha fretta di dimenticare, con la stessa fermezza con cui invece rinnova ogni giorno il ricordo dei suoi miti, a cominciare da quei Padri Fondatori che incisero nella storia del paese i valori di una nazione ancora da costruire e che ora traballa, scossa nelle sue radici più care dall’incauto avventurismo di un uomo che non ha mai voluto riconoscere di poter essere, sempre e di nuovo, soltanto un numero due. Non le giubbe blu che permisero al repubblicano Ebenezeer Richmond di conquistare il Campidoglio nel 1194, ma nove toghe nere hanno infranto questa volta l’ostinata illusione di Al Gore, bambino viziato e illuso dalla sua sprovveduta corte che quel che la Storia aveva consegnato al suo predecessore con contorno boccaccesco di caduta e redenzione, potesse essere dato anche a lui, ragazzone cresciuto dalla promessa del padre “Tu sarai presidente degli Stati Uniti”, promessa la cui rettifica venne tenuta nel silenzio dalla premura rocciosa come le montagne degli uffici stampa. “Tu sarai residente negli Stati Uniti”, aveva infatti ordinato l’anziano Rudolph Grosvenor Gore II al figlio pazzerellone che invaghitosi della bionda e scandinava Inga Gunnarson, figlia di un calafato di Malmoe, annunciò di volersi trasferire tra i fiordi, là dove le schede e le punzonature traditrici della Florida non  avrebbero mai gettato alle sue calcagna il loro alito sepolcrale. Ma la storia, si sa, segue percorsi tortuosi, e il destino di stelle e strisce cadute di questo vaudeville ha voluto che a decretare la maggioranza in seno alla decisione della Corte Suprema fosse proprio il giudice Linda Wedgeworth Collins, figlia del giudice Wedgeworth, colui che negli anni dei Beatles, di Robert Zimmerman e di Fragole e sangue aveva ordinato l’espulsione dal college di Rydell High della avvenente Inga, rea di aver perseverato nel tentare la morale bacchettona del baronato accademico con le sue toilette parche e provocatorie, ma questa è un’altra storia. Ed ora che l’arbitro ha chiamato l’ultimo strike e il fuoricampo che avrebbe dovuto rovesciare la storia non è arrivato, è proprio la Storia che infligge l’ultimo colpo d’accetta a queste elezioni che l’America non avrebbe mai voluto vedere, che la Florida non avrebbe mai voluto decidere, che Gore non avrebbe mai voluto perdere e che io non avrei mai voluto perdermi, con tutto quello che ci ho tirato su a suon di bacchettate sulle lisce e rosee nocche del candidato democratico, sconfitto – gli occhi del mondo lo imprimano eterni – anche dall’essersi trovato contro un inviato che aveva già visto battuto un assedio di mesi di editoriali all’infantile eccitazione sessuale del suo predecessore, e che di certo, sotto i riflettori della Storia, due tranvate di seguito non poteva certo rooseveltianamente prenderle.

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Un commento su “Stili

  1. mke777

    Non proprio normale oggi ma la tendenza c’e’ senz’altro.
    Avessi fatto un boxino morboso sulla sconfitta di Gore (elettrìci di colore in lacrime per Gore (con le tette grosse)) saresti stato veramente avanti.

Commenti chiusi