Ho trovato il tempo di leggere questo articolo che qualcuno (grazie, scusa, non mi ricordo chi) mi ha segnalato su Twitter, in cui si spiega dettagliatamente ed estesamente come le nostre opinioni siano corroborate più da spinte e fattori che hanno a che fare con chi siamo come individui, la nostra necessità di affermazione e il contesto in cui le esprimiamo, che con i fatti reali: e che non necessariamente una maggiore informazione ci avvicini a opinioni più fondate e lucide. Anzi, per avere idee più radicate nella realtà e verificate, dovremmo di conseguenza lavorare più su quello che siamo, le sicurezze, le debolezze e i bisogni che abbiamo, che non sulla nostra informazione sui fatti. E guardarci sempre in uno specchio immaginario e domandarci: perché davvero sto sostenendo questa cosa? Me la sto raccontando?
Kahan calls this theory Identity-Protective Cognition: “As a way of avoiding dissonance and estrangement from valued groups, individuals subconsciously resist factual information that threatens their defining values.” Elsewhere, he puts it even more pithily: “What we believe about the facts,” he writes, “tells us who we are.” And the most important psychological imperative most of us have in a given day is protecting our idea of who we are, and our relationships with the people we trust and love.
“We fixate on the cases where things aren’t working,” he says. “The consequences can be dramatic, so it makes sense we pay attention to them. But they’re the exception. Many more things just work. They work so well that they’re almost not noticeable. What I’m trying to understand is really a pathology. I want to identify the dynamics that lead to these nonproductive debates.” In fact, Kahan wants to go further than that. “The point of doing studies like this is to show how to fix the problem.”
But Kahan would never deny that identity-protective cognition afflicts him too. In fact, recognizing that is core to his strategy of avoiding it. “I’m positive that at any given moment some fraction of the things I believe, I believe for identity-protective purposes,” he says. “That gives you a kind of humility.”
The solution requires, as a prerequisite, a desire to expose yourself to uncomfortable evidence — and a confidence that the knowledge won’t hurt you.
Io trovo che essere delle persone insicure da questo punto di vista aiuti molto. Essere insicuri significa che si ha paura di aver torto, e si cercano conferme di quel che si crede.
Ovviamente questo può portare a ragionamenti circolari di auto-conferma, ma anche che si è molto ben disposti ad un approfondimento serio.
Faccio un esempio che è meglio: ne “La ragazza e l’inquisitore” di Nerea Riesco, l’inquisitore non riesce a credere in Dio -questa certezza di fede che vede in altri a lui manca- e cerca disperatamente prove che lo rassicurino, e per farlo cerca qualcosa che sembra molto meno sfuggente e più facile da toccare con mano: il Diavolo.
Ma vuole essere sicuro, e ogni volta che indaga su qualche caso demoniaco, si rende conto che trova solo mentecatti, derelitti, infelici, o vittime innocenti.
Se si è insicuri, ma onesti, se si è portati a credere -proprio perché si è insicuri- che la bontà delle nostre convinzioni nasca non dalla forza con cui vi crediamo (il caso più normale), ma dalla solidità che anche gli altri devono potervi scorgere, un po’ ci si difende dal confirmation bias.
Detto in altre parole: se per convincere gli altri penso che la mia sicurezza, la mia autorità, il mio charme siano sufficienti, non approfondirò. Se penso, perché sono un insicuro, che quel che io dico non conta niente, cercherò nei fatti la forza dei miei argomenti.
Poi c’è un’altra cosa. Quando ci si ostina nei propri pregiudizi, i problemi diventano insolubili, il mondo un luogo sordo che non riesce a vedere le nostre motivazioni e le nostre paure, e ci sembra che tutto remi contro. E che siamo impotenti.
Quando ci si rende conto che forse su qualcosa forse ci sbagliavamo, che forse le idee dei nostri oppositori non erano così pessime o malvagie, ci si comincia a rendere conto (non dico sempre: qualche volta) che i problemi si possono risolvere.
Ottimo titolo. Aggiungerei anche un’altra domanda, che dobbiamo farci :”Quale storia mi sto raccontando?” nel senso che ne abbiamo di ricorrenti, di storie che ci raccontiamo