Non c’è un “manuale di stile”, al Post: le scelte di linguaggio e scrittura – un misto di rigori supponenti ed eccezioni libertarie – sono il risultato di una serie di precedenti e giurisprudenza che si forma via via di caso in caso, cercando di definire delle sintesi e regole nel tempo, e trovandovi deroghe spesso e volentieri. Qualche formulazione ogni tanto esce, tipo: “non scrivere niente che non diresti a voce parlando con tua madre”, o “non suscitare mai domande a cui non dai una riposta: fosse anche «non la sappiamo, la risposta»”, o “scegli ogni singola parola che usi, con una ragione”, o “se c’è un modo di dire una cosa esatto ed altrettanto efficace, usa quello e non una metafora”. Però poi ci sono sempre eccezioni e contesti che sparigliano, o situazioni che mettono in discussione le regole. E stiamo sempre parlando di un solo tipo di scrittura, dedicata alla chiarezza, completezza e informazione: ci sono molti modi di scrivere bene, anche con altri criteri.
Queste riflessioni sono uno dei motivi per cui ho trovato prezioso il nuovo libro di Gianrico Carofiglio, che ha sospeso per un giro di fare il romanziere di successo e si è messo in un lavoro di studioso e insegnante. Il libro si chiama “Con parole precise“, e l’ha pubblicato Laterza. È una ricerca accurata e approfondita, non un qualunque pamphlet personale contro le derive della scrittura trascurata. Ci sono casi, citazioni, digressioni basate su esempi e modelli numerosi: Carofiglio si dedica in particolare non alla scrittura letteraria – con cui ha familiarità ma la quale suggerisce per sua natura maggiori libertà – e nemmeno a quella giornalistica, di cui parlavo sopra. Ma a un repertorio di scritture che con quella giornalistica dovrebbero condividere l’obiettivo della chiarezza e del servizio pubblico, del miglioramento dei funzionamenti della comunità (il sottotitolo del libro è “Breviario di scrittura civile”): quelle che riguardano, la politica, gli atti pubblici, la giustizia, le informazioni di servizio.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, lasciamo i discorsi generali e passiamo all’esame di qualche testo tratto dalla pratica giudiziaria. Quello che segue è uno stralcio da un appello di un avvocato contro un provvedimento di sequestro emesso da un giudice.
«Il provvedimento ablativo impugnato è la copia sputata di altro analogo decreto di sequestro preventivo emesso su input dello stesso PM procedente, nell’ambito dell’ormai nota operazione denominata «Grande Cina» con la quale il GIP (rectius sempre il medesimo GIP) ritenendo che «gli investimenti effettuati apparissero nettamente sproporzionati rispetto ai redditi dichiarati ed alle attività economiche esercitate lecitamente» disponeva il sequestro preventivo dei beni (degli stessi beni) oggetto precipuo di doglianza pure del presente procedimento».
Prescindiamo dall’ineleganza di alcuni passaggi e chiediamoci cosa dice in sostanza questo testo. Dice qualcosa che poteva essere reso semplicemente così:
«Il provvedimento di sequestro è identico a un precedente decreto rispettivamente richiesto ed emesso dalle stesse Autorità in relazione ai medesimi beni».
Carofiglio è magistrato, oltre che scrittore, e in mezzo è stato anche parlamentare: ne ha frequentate di scritture pubbliche, e ci è stato attento. Ha letto e osservato. E il suo libro non è appunto solo una derisione irritata del peggio degli stili correnti (quel morettismo autocompiaciuto e sterile di “le parole sono importanti!”, fatto solo di critica vanitosa), ma un’analisi delle loro dinamiche e anche una raccolta di istruzioni di dettaglio su come starne alla larga (“In casi come questi basta eliminare il verbo generico…”; “può essere sufficiente sostituire le parole astratte con le corrispondenti parole concrete”: qui mi ricordo del mio compagno di università che – plagiato dai testi accademici – chiamava “alberature” gli alberi in un progetto urbanistico).
Per attenuare gli effetti della lettura quotidiana dei giornali e dei loro modelli di scrittura, è un libro che consiglio a chiunque, ma soprattutto ai giovani aspiranti giornalisti che presentano articoli in imitazione – comprensibilissima, quello è il panorama – di quello che leggono in giro, e ne sono diseducati: è un sistema di trascuratezza che si perpetua e rigenera, e Carofiglio ha fatto un notevole sforzo per non limitarsi a dire “come scrivete male!”, e aggiungere anche come si può scrivere meglio.