Nel giro di pochi giorni, la settimana scorsa, ho letto alcuni commenti che contenevano opinioni simili tra loro a proposito delle conseguenze per le democrazie e per le convivenze civili derivate dall’uso e dai funzionamenti di Facebook: è un tema che esiste eccome, l’Economist lo ha messo in copertina, altre testate serie lo hanno affrontato nei mesi scorsi.
I post di Roberto Tallarita, Massimo Mantellini, Arianna Ciccone – persone attente e che sanno di cosa parlano – invece avevano al centro un’obiezione che mi permetto di riassumere così: la “colpa” degli usi di Facebook non deve essere attribuita a Facebook ma a chi lo usa e a come lo usa, mentre indirizzare verso Facebook le richieste di interventi correttivi significa trovare un facile capro espiatorio di un problema che è più esteso, sociale, di cultura, di come le persone vivono il rapporto con gli altri e con le comunità in cui vivono. Problema che – dico io – è assolutamente reale, chiaro e abbiamo parlato spessissimo negli ultimi anni delle derive di frustrazione, insicurezza, aggressività, risentimento, che governano questo rapporto col mondo per sempre più persone.
L’obiezione citata si inserisce dentro due grandi filoni. Uno è quello che dice che non sono gli strumenti – o “le piattaforme” – a essere responsabili del loro uso, ma chi li usa: filone che occupa tantissimi dibattiti passati e presenti, ed è però molto ambiguo e discutibile. È per esempio usato dai sostenitori della diffusione delle armi negli Stati Uniti, tal quale. E trascura poi il fatto che quasi mai gli strumenti sono davvero “neutrali”: nel caso di cui parliamo, per esempio, Facebook funziona con dinamiche e criteri scelti e progettati deliberatamente in determinati modi, che generano determinati effetti, voluti e non voluti. Gli strumenti e la loro natura indirizzano i propri usi. Se – per esempio – io introduco in Italia un sistema di voto elettronico i cui comandi siano solo in inglese, quello strumento influenzerà la partecipazione, i risultati del voto, e il funzionamento della democrazia.
Un altro filone dialettico a cui appartiene l’obiezione è quello che sostiene che le scelte delle élite siano inevitabilmente orientate dalle masse, o che l’offerta segua la domanda. È quello che dicono i direttori dei giornali che privilegiano notizie stupide o macabre o falsificate spiegando che è quello che vogliono i lettori (“alla gente piace il sanguinaccio“). È quello che dicono i commentatori della mediocrità delle classi politiche ricordando che sono state votate dagli elettori (“è colpa degli italiani”, ma gli italiani sono gli altri). È quello che dicono i dirigenti televisivi sostenendo che “la tv non deve avere un ruolo pedagogico” e argomentando le proprie scelte con i numeri dello share. E gli esempi sono tanti, di “colpe” attribuite a un sentire comune, a un’inclinazione diffusa, per togliere quelle “colpe” a chi fa scelte di pessima qualità e le attribuisce pilatescamente a quel sentire e a quell’inclinazione. E arrivo al punto, secondo me.
Il punto è che un elemento di quella confusa nuvola di insicurezze, frustrazioni, ansie, code di paglia, risentimenti, immaturità, che sono diventate le nostre vite e le nostre giornate, è la confusione quotidiana tra la “colpa” e la “responsabilità”, per cui di ogni cosa cerchiamo un colpevole o ci temiamo colpevoli, invece che cercare un responsabile e sentirci responsabili.
“Responsabilità” è una parola molto bella nel suo significato (meno nel suo suono farraginoso, e infatti fu adottata promozionalmente solo da un gruppo di scalcagnati), perché ne ha due, uno legato al passato e uno al futuro: si è responsabili di quello che è accaduto e si è responsabili di quello che potrà accadere. A differenza di “colpa” che ha sempre un’accezione negativa (e, viceversa, di “merito”), la responsabilità non indica se ciò che è accaduto sia buono o cattivo. Ma soprattutto, implica un potere di scelta su ciò che accadrà, e un potere di influire sulle cose: si è responsabili del fatto che possano essere migliori o peggiori, che qualcosa vada bene o male, che qualcuno sia protetto o no, che tutto funzioni come deve, o persino meglio di come ci si aspetterebbe.
Ed è questo equivoco tra due termini diversi e di diversissima importanza (invertita nei nostri tempi, nei quali le priorità sono le ritorsioni sul passato invece che le opportunità del futuro) che secondo me indebolisce i ragionamenti che ho citato all’inizio e gli altri di quel genere: perché l’individuazione delle colpe e la scelta se siano di tizio o di caio, delle élite o delle masse (di entrambe, circolo vizioso), è sterile o fuorviante. È come quando chiedi ai tuoi figli di raccogliere una cosa per terra e loro rispondono “non l’ho buttata io”.
La domanda, tornando a Facebook, non è “di chi è colpa?” ma “chi ci può fare qualcosa?”, chi può intervenire, per cultura e potere, sull’interruzione del circolo vizioso, chi può migliorare le cose? Mio cugino sul suo profilo, o Mark Zuckerberg?
Voi direte “se tuo cugino, e tutti i cugini, e tutti i noi cominciamo a fare la nostra parte…” eccetera, e avrete ragione: perché ognuno ha pezzetti di responsabilità e ognuno può fare una parte nel limitare i danni e perpetuare principi e regole condivise. Ma a creare nuove regole, incentivare comportamenti, dare priorità a cose diverse, non può essere mio cugino: i poteri si chiamano così perché hanno i poteri: nel caso di cui parliamo, perché hanno creato Facebook, lo hanno fatto diventare quello che è e ne hanno indotto gli usi, o non ne hanno indotti altri.
(il mondo lo cambiano le masse o lo cambiano le élite?)
Di questo dovremmo parlare, invece che di dare le colpe: di chi individuare come responsabile di quello che sarà, di farglielo capire, di stargli addosso. Assolverlo da questa responsabilità – sia un politico, un direttore di giornale, un dirigente televisivo, o Zuckerberg – convenendo con lui che “la gente vuole questo” o “che è colpa degli utenti”, non aiuta, e di certo non suggerirà a due miliardi di utenti di Facebook come usarlo meglio.