Cosa pubblicare

Uscendo dal cinema dove c’era stata l’anteprima di The Post, un autorevole collega mi ha detto che lo aveva trovato “un film che dice che il giornalismo serve ancora a qualcosa”. “Che serviva“, mi è venuto da rispondere, considerato che la storia raccontata risale al 1971. Ed è vero che sono cambiate diverse cose, nel frattempo, mentre tante restavano uguali: ma è anche vero che non è solo questione di tempo, ma anche di luoghi. Il giornalismo del Washington Post e delle testate serie americane continua a non essere niente di paragonabile a quello delle testate maggiori italiane. E su questo c’è stata una storia fantastica e illuminante, nei giorni scorsi.

È uscito sul Wall Street Journal un articolo che racconta come Donald Trump avrebbe fatto pagare un’attrice porno perché non raccontasse una loro presunta relazione ai giornali. Ma la parte interessante per chi ha cari i rigori del giornalismo attento è che questa storia era già stata indagata da Slate (dal direttore del gruppo Jacob Weisberg) e da ABC nel 2016: e l’attrice aveva raccontato ai loro giornalisti la storia. Però poi – probabilmente in conseguenza dell’accordo con gli avvocati di Trump – aveva smesso di collaborare con i giornalisti e si era rifiutata di confermare ulteriormente le cose che aveva raccontato, o di fornirne prove.
E quindi Slate e ABC avevano concluso di non farne niente.

Questa la scrivo due volte, che è forte.

E quindi Slate e ABC avevano concluso di non farne niente.

Ms. Clifford promised to send Mr. Weisberg the original paperwork. But shortly after the text message exchange, Ms. Clifford stopped responding. Mr. Weisberg said that his conversations with the actress were on the record but that he was not prepared to write the story without her consent.

Insomma, avendo solo la parola di lei, parola alla cui conferma lei si era poi sottratta, e nessun’altra prova, Weisberg decise che non ci fossero sostegni sufficienti alla pubblicazione (ovvero alla credibilità della storia). Proprio come succede in certi film americani, quelli che qui li andiamo a vedere e i giornalisti italiani escono ammirati e fieri della loro “professione”. Salvo poi pubblicare anche un sentito dire di terza mano non appena arriva loro all’orecchio.

 

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