Due settimane fa durante un’intervista in pubblico Enrico Mentana ha detto tra le altre questa cosa.
Io non credo assolutamente che, né di dritto né di rovescio, ci sia un problema di libertà di informazione in Italia
Nel contesto del discorso che si stava facendo, e immaginando di capire a cosa si riferisse Mentana, io che ero lì ad ascoltare sono stato d’accordo. E lo sono ancora. Però ho avuto conversazioni nel frattempo che mi hanno fatto mettere da parte una serie di eccezioni a quel commento: una serie di dritti e rovesci, diciamo.
Quello che è vero della frase di Mentana riguarda il giornalismo e la politica, ed è che non esiste in scale rilevanti – al contrario di quello che viene spesso ripetuto con leggerezza da molti lettori o estranei al giornalismo – una capacità di condizionamento da parte della politica e dei “poteri” politici nei confronti dell’informazione che di fatto limiti la libertà di informare. Attenzione: non sto dicendo che dei condizionamenti non esistano (più spesso però sono dentro le redazioni e nelle teste dei giornalisti, non sono “pressioni” indesiderate); né sto dicendo che questi non influiscano sulla qualità dell’informazione. Quello che sto dicendo è che non limitano la complessiva “libertà di informazione in Italia”, un luogo dove si possono esprimere tutte le opinioni del mondo in mille contesti e ci sono occasioni e luoghi per raccontare tutte le storie (è implicito che parliamo di storie verificate, fondate, nei criteri del giornalismo accurato). Se mi chiedete chi è meno libero dai ricatti dell’altro tra il giornalismo e la politica, la politica senza dubbio.
Però è vero che ci sono invece dei dritti e dei rovesci che vanno citati, quando si dice questo. E sono così tanti e rilevanti che, almeno a me, la condivisione tout court della risposta di Mentana l’hanno fatta un po’ attenuare.
1. Esiste naturalmente un numero di giornalisti sottoposti a minacce, vere violenze, intimidazioni, impedimenti a lavorare, soprattutto in zone di estesa criminalità al Sud, da Roberto Saviano in giù, che non si può rischiare di dimenticare. È una premessa che se non sbaglio era stata fatta pure in quell’incontro pubblico, e riguarda non l’informazione ma in generale la legalità del paese. Se la mafia uccide o minaccia i giornalisti, è perché in Italia c’è un problema di mafia, non di informazione.
2. Esistono – soprattutto in questi tempi di grandi difficoltà economiche per i giornali – dei condizionamenti quotidiani ed efficaci soprattutto economici: le pagine dell’Economia dei maggiori quotidiani sono le meno “libere” all’interno di quei quotidiani (anche quelle della Moda, che però hanno una funzione molto più ibrida già per loro natura). Ci sono aziende di cui leggete ogni giorno solo successi, e una palese assenza di commento critico o scettico nei confronti di business, prodotti, attività economiche; ci sono articoli che sono docilmente promozionali senza nessuna indicazione ai lettori della loro natura. Non lo considero un problema di “libertà di informazione” ma di qualità dell’informazione, e di libertà di ciascuna testata che fa questo tipo di scelte: avendo però presente che una mancanza di libertà è inevitabile in qualunque attività che sia sul mercato, compresa quella dei giornali, che molti pretendono illibata senza porsi il problema di chi paghi i giornalisti e tutti gli altri che ci lavorano.
3. Esiste un abuso quotidiano di strumenti giudiziari intimidatori nei confronti di giornali e giornalisti: le minacce di cause, le richieste di danni, le lettere degli avvocati che con toni terroristici agitano pretese di risarcimenti piene di zeri, sono un ricatto continuo con cui solo una solida esperienza, dei buoni avvocati, e le risorse di tempo e soldi utili a sbarazzarsene permettono di convivere. E questa è l’ordinaria amministrazione: ci sono poi casi particolari ma non infrequenti di aziende, personaggi e studi legali che lavorano sistematicamente sull’azzoppamento a colpi di citazioni di determinati giornali e giornalisti. Naturalmente c’è tra i giornali e i giornalisti chi usa queste critiche strafondate per darsi libertà di scrivere cose inventate, allusive, false, dando così al terrorismo legale l’alibi di poter avere delle ragioni. Ma è un alibi: dovreste vedere la bullaggine sfacciata e arrogante di certe lettere legali che arrivano al Post senza nessun appiglio legale ma con il solo obiettivo di “far passare la voglia”, per immaginare cosa avvenga sulla scala di giornali più grandi, di inchieste più importanti, di personaggi più potenti. Aggiungeteci l’incertezza del diritto che risiede in certi tribunali, aggravata dalla frequente incompetenza dei magistrati sulle evoluzioni del sistema dell’informazione e dell’innovazione digitale, e un problema ce l’abbiamo, eccome: io lo trovo un problema di legislazione e di regole, più che di libertà di informazione.
4. Esiste una nuova e attualissima forma di intimidazione e limitazione della libertà dei giornalisti: meno violenta, meno pericolosa, ma continua, intensa, e di grande efficacia. È quella della reazione verbale aggressiva, offensiva, minacciosa, violenta che internet ha offerto a enormi quantità di noi lettori, e che grandi quantità di noi lettori sfruttano quotidianamente: chiamarli “haters” li rende macchiette o qualcosa di alieno, ma tantissime persone hanno raccolto la grande opportunità di confronto e dibattito data da internet e dai social network per farne vuota violenza e aggressione. Nessuno di noi fa la vittima, qui – abbiamo le spalle larghe – ma è un fatto che chiunque sia abituato a raccontare storie e pubblicare opinioni sia da diversi anni in modalità “cosa mi succederà se scrivo questo”: e se da una parte avere presenti e visibili le possibili obiezioni a ciò che si scrive è utilissimo e prezioso – per me lo è – dall’altra gran parte delle reazioni sono ben altro che “possibili obiezioni” (io per me ho costruito una condizione ovattata su Twitter in anni di silenziamento di account, ma vedo cosa succede ad altri). Il risultato lo vedete nell’intensificarsi di “premesse” e distinguo all’inizio degli articoli, oppure non lo vedete: sono le cose che non scriviamo. “Chi ce lo fa fare?”. “Vale la pena?”. “Voglio rovinarmi la giornata?”. Voglio sentirmi insultare dopo aver citato l’aneddoto di un tassista perché “puoi permetterti il taxi”?
Molti lasciano perdere, quelli che se lo possono permettere. Altri non possono. Prendete solo i giornalisti che per lavoro seguono quotidianamente le cose della politica, di questi tempi. I loro account sui social network sono una versione appena più ridotta dei commenti sul blog di Beppe Grillo, aggressioni, insulti e vigliaccate.
Ripeto, siamo gente con le spalle larghe: uno non si offende certo perché gli scrivono “servo” o “giornalaio” (noi fan dei giornalai, poi), gli inventano un attico a Manhattan o gli insultano i parenti su Twitter. Ma è deprimente, sfinente, demotivante. Fa scrivere meno, fa scrivere più cauti. È una cosa fascista, in parte spontanea e in parte organizzata (come è il fascismo). Ed è un problema di libertà di informazione, di dritto o di rovescio.