Thank you Mario, but

La premessa autobiografica è questa. Ero alle medie quando a casa di un mio amico che la sapeva più lunga di tutti arrivò la consolle di Pong, e ci passammo pomeriggi, incantati. Uscendo dal liceo all’una invece mi fermavo in un bar lungo la strada di casa – si chiamava “Pub 2A” – a giocare a Space Invaders, e arrivavo tardi per pranzo con mia madre furiosa. Poi ci fu Donkey Kong, che sarebbe diventato Mario, e ci furono anni di sale giochi, in particolare una a Porta a Lucca dove si fermavano i parà della caserma vicina. Lo ZX Sinclair con le cassette. E poi tutto il resto della paleontologia dei videogiochi (Scramble! Dragon’s Lair!). A un certo punto smisi del tutto, forse intorno ai 28 anni, dopo aver passato notti a giocare a questo e quello nei miei primi computer. Mi manca insomma tutta l’era moderna, che è diventata completamente un’altra cosa, anche se la osservo. Mai giocato a FIFA, né a GTA, né a World of Warcraft, per dirne di già anziani (qualche giorno di Wii, ora che ci penso, un Natale anni fa).

E insomma, vorrei parlare ai “moderni” tra di voi, a quelli che non hanno orrori nostalgici per le derive tecnologiche contemporanee: che siano grandi giocatori o soltanto grandi fatalisti e curiosi del cambiamento. Agli altri, gli spaventati preoccupati increduli incapaci di capire, parlerò un’altra volta (e già lo faccio spesso), oppure ci parla Baricco che è più bravo.

C’è questa polemica sui videogiochi che torna, da decenni: ha senz’altro ragione Massimo Mantellini a indicarne la sproporzione di misura e l’anacronismo, è come una discussione se la pioggia faccia venire il raffreddore. La pioggia se ne frega (e noi ci teniamo il raffreddore eventuale, aggiungerei: ma non voglio saltare a conclusioni). Ora è tornata – la discussione – per via dell’opinione drastica di un importante uomo politico, che rivendica di non far giocare ai videogiochi i suoi figli: io penso che siano fatti suoi e che non succederà nessuna tragedia per questo, né che sia per forza un sintomo di ignoranza o prepotenza, ma non importa, trascuriamo lui (anche perché mezzo paese si sta immischiando nell’educazione dei giovani Calenda).
Perché se no si finisce, come in molte cose, in contrapposizioni da stadio (“videogiochi sì, videogiochi no”, come titolano poi i giornali) in cui le posizioni si radicalizzano, i ragionamenti scompaiono, e conta solo l’ennesima occasione di affermare se stessi attraverso una rivendicazione identitaria: “sono un moderno conoscitore del mondo e del presente, contro i luddisti spocchiosi” o “sono un raffinato critico delle depravazioni contemporanee, contro i trogloditi ignoranti”.

L’ho fatta lunga. Stringo.
1. Siamo sicuri, i giocatori tra noi – presenti o passati -, che nelle nostre difese dei videogiochi e del loro valore non ci sia una difesa di noi stessi, una piccola quota di coda di paglia, un rifiuto di dire “ok, è spesso solo una perdita di tempo divertente come molte altre, come il fumo o guardare Sanremo o abbuffarsi di bigné”, per farceli nobilitare “culturalmente”? Quanto difendiamo i videogiochi e quanto noi stessi e quello che siamo?

2. Ci ricordiamo di quando usavamo gli stessi argomenti per difendere entusiasti i cambiamenti digitali, anche allora convinti di avere di fronte i capricci ignoranti di persone che non sapevano di cosa parlavano, allarmate sul “dove andremo a finire, signora mia?”. Poi è successo, lo sappiamo, che quelle persone erano davvero ignoranti e non sapevano di cosa parlavano, ma ci siamo resi conto con gli anni che quegli allarmi non erano del tutto infondati. Ci eravamo arroccati in una difesa un po’ sventata e dogmatica (“è tutto bellissimo! I problemi sono inezie!”) per fastidio nei confronti dei critici più che per riflessione sulla critica: e poi abbiamo però cominciato a prendere atto del fatto che non tutto cambiava in meglio, che dei rischi c’erano, che qualcosa ci sfuggiva di mano, che non tutto è governato dal bene comune, che non tutti hanno gli strumenti per godere del buono e diffidare del cattivo.
I casi sono ben diversi, certo: ma siamo sicuri che non stiamo di nuovo arroccandoci come allora, per non-darla-vinta-a?

3. Ora sinceramente, guardiamoci negli occhi: vogliamo negare che una quota di rincoglionimento e dipendenza è familiare a tutti noi che ci siamo immersi per ore e giorni in videogiochi meravigliosi? Che ce li sognavamo – o sogniamo – la notte, andando a dormire con quelle immagini proiettate nel buio? Che non vedevamo – o vediamo – l’ora di liberarci da qualunque altro impegno e scadenza per farci sequestrare da un’ora, due, quattro? Che questa cosa ci capitava soprattutto quando eravamo più giovani?
Significa che siamo tossici e moriremo? No. Ma proprio per questo non si capisce perché negarlo e dire “ma va’! Smetto quando voglio”.

4. E mi pare innegabile anche, per leggi della fisica, che i videogiochi sottraggano tempo ad altro. Di sicuro se gioco molto – ma anche se vado su Whatsapp e su Instagram ogni volta che ho un attimo – faccio meno altre cose, compreso uscire di casa, leggere libri o leggere altro. E per ora fermiamoci prima di dire che questo altro sia meglio: ammettiamo che non lo sia necessariamente, e che avere nella propria formazione una grande competenza a Minecraft equivalga ad aver letto Philip Roth, o che sia persino più prezioso. Ma saremo d’accordo che la varietà di esperienze sia meglio, e che per molti teenagers – e anche qualche adulto – il tempo investito nel conoscere è pesantemente sbilanciato verso i nuovi prodotti digitali. Non sono un difensore dei libri in quanto tali, si sa – è pieno di libri inutili e brutti ed è pieno di letture preziose sul web – ma proprio perché non vieterei ai miei figli l’esperienza rilevante dei videogiochi, non mi piacerebbe che il monopolio degli schermi vietasse loro di fatto l’esperienza rilevante dei libri (o del cinema, per dire, o dello sport).
È un punto che chiamerei: i videogiochi, certo, va bene, e pure Whatsapp e Instagram, sono il primo. Ma anche meno.

5. Infine, un tema su cui vado con tutta la diplomazia del caso, che conosco le sensibilità, ma che vorrei dire in deroga al punto 4: a tutto ‘sto grande valore cultural narrativo dei videogiochi non vogliamo dargli una ridimensionata? Lo dice uno che pensa davvero che – ognuno ha le sue – Ruzzle e Kenken allenino il cervello e tengano abituati a elaborazioni linguistiche e logiche preziose, e quindi metto in conto che qualche tipo di arricchimento ci sia anche da World of Warcraft. Ma col senso della misura rispetto al fatto che – lo dico! – la cultura dei videogiochi (parlo del mainstream, di ciò a cui giocano quasi tutti e a cui giocherebbero i figli di Calenda) sta alla storia della letteratura o al reporting giornalistico come la fiction su Montalbano sta a Hollywood: massimo rispetto, ma non è lo-stesso-piano. È un altro campionato. E un po’ ce la raccontiamo, sia per autoassolverci che per épater quelli che ci sembrano vecchi tromboni.

Conclusione vile: magari mi sbaglio, magari avete ragione voi, ho smesso da troppo tempo (salvo Ruzzle e Kenken, come si è capito) e mi mancano di certo dei pezzi.
Ma di una cosa sono abbastanza convinto: un dibattito è sempre interessante, ma non ci sarà nessuna conseguenza preoccupante per loro né per nessuno se ai figli di Calenda non saranno permessi i videogiochi. Ma nessuna nessuna.

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