Il post di Nicola Lagioia a proposito della presenza di un editore vicino a gruppi fascisti al Salone del Libro di Torino era molto ragionevole ed equilibrato: definiva abbastanza chiaramente quello che secondo lui non deve essere tollerato (“l’apologia del fascismo, l’odio etnico e razziale”) ma suggerendo un dibattito e il coinvolgimento delle altre parti responsabili del Salone (“siamo antifascisti anche perché crediamo nella democrazia”) e ricordando di mantenere il senso della misura rispetto alla dimensione della questione (“Senza minimizzare, ma per dare le giuste proporzioni a chi ce lo sta chiedendo: stiamo parlando di circa 10 mq di stand su 60.000 mq di spazio espositivo, e di nessun incontro nel programma ufficiale su circa 1200 previsti. Lo scrivo solo perché ognuno così ha più strumenti per dire la propria”).
Gli auspici di tenere tutto nelle giuste proporzioni, in un paese sproporzionato dal primo suono della sveglia mattutina, sono andati a farsi benedire: e invece che un utile e proficuo dibattito la questione è diventata la consueta riga nel mezzo, e o di qua o di là, con reciproche accuse. Ci sono state ammirevoli eccezioni, come quella di Zerocalcare, che ha motivato la sua scelta facendo attenzione a non farla diventare un’accusa contro nessuno che non la condividesse, né una rivendicazione di maggior purezza antifascista (e aggiungo l’indomani Concita De Gregorio). Ma la discussione generale ha molto ristretto i suoi orizzonti, diciamo.
Invece proviamo a staccarci dal merito occasionale (se proprio devo dire la mia, per evitare che alla fine qualcuno chieda “e quindi?”, sono d’accordo con Enrico Sola) e approfittiamo per capire le ragioni del disaccordo tra persone che si ritengono antifasciste e come mai non ci sia una risposta definita e condivisa su un caso di questo genere. La domanda è: perché non abbiamo una regola? Può valere quella esposta dagli organizzatori del Salone, per i quali ciò che non è sanzionato dalla legge è lecito, in termini di libertà di espressione?
Il fatto è che quello di cui stiamo parlando è un’eccezione alla regola, prima che una regola: la regola è la libertà di espressione – che non è una concessione, ma un principio prezioso – da cui dobbiamo decidere se escludere delle cose, se ci siano cose che invece non si debba permettere di dire. Ed è lo stesso tema dei tabù; o delle “emergenze”, nel senso delle “leggi emergenziali” con cui affrontiamo questioni che dovrebbero essere eccezionali con strumenti che violano le libertà, questioni che le regole consuete non ci permettono di affrontare. Faccio alcuni esempi sparsi di interventi di questo genere: certe leggi antiterrorismo (italiane o americane), certe leggi antimafia, il divieto di rientro dei Savoia, le norme che sanzionano il saluto romano, le leggi in diversi paesi che perseguono il negazionismo sull’Olocausto.
Ora, il dibattito su questa cosa è ricco e antico: da una parte i promotori di queste “eccezioni” alle libertà in genere consentite sostengono che le eccezioni siano uno strumento efficace per limitare o sconfiggere pericoli gravissimi (il terrorismo, la mafia, il fascismo: “emergenze”), dall’altra i loro critici sostengono che in alcuni di questi casi il gioco non valga la candela, in termini di limitazione dei diritti, di eccesso di potere arbitrario attribuito a istituzioni dello Stato, di creazione di precedenti di sovversione delle regole condivise.
E ogni caso fa naturalmente storia a sé.
Ma io credo che un criterio fondamentale per limitare il più possibile che ogni “eccezione”, che ogni legge emergenziale, generi mostri liberticidi incontenibili (perché ne genera, sempre) sia che ne siano stabiliti e condivisi con grande esattezza i limiti e le applicazioni. Il caso (limite, lo so) più esemplare è quello dell’ormai estinto divieto di rientro in Italia dei Savoia: che lo si condividesse o no, l’eccezione aveva dei termini di applicazione limitatissimi e soprattutto indiscutibili, esenti da quasi qualunque arbitrarietà, estensione indesiderata o pretestuosa, discrezionalità, messa in discussione. Simile è il caso del negazionismo sull’Olocausto. Il problema nasce quando c’è spazio per la domanda “chi decide cosa sia il [quello che vogliamo sia un tabù]?”.
Per fare un esempio contingente: dire “non ci possono essere contenuti o libri fascisti” è molto scivoloso, perché la definizione del fascismo è da sempre sfuggente. “Lo so riconoscere quando lo vedo” non può essere una formula autorevole e condivisa per una cosa – il fascismo – che tanto per cominciare da sempre interpretiamo di volta in volta come un periodo storico specifico e italiano, o un approccio violento e prevaricatore alle cose e agli altri, o un’ideologia dai contorni indefiniti e confusi a sentire i suoi stessi esponenti, o un progetto politico di difficile sintesi e fatto di molte parti, alcune delle quali peraltro condivise con altri progetti invece più tollerati. Qualcuno ha provato a definire il campo dicendo che dobbiamo considerare fascista chi si dica fascista, ma il campo così si riduce molto, più che definirsi: malgrado la legge Scelba, nel dopoguerra ha prosperato in Italia un partito che tutti – dentro e fuori – consideravano fascista, chiamandosi Movimento Sociale (molti lo volevano “fuorilegge”, ma molti di più lo accettarono). La stessa interpretazione della legge Scelba, come dice per esempio l’articolo che ho già linkato, è stata spesso diversa e fragile.
Per questo mi sembra già utile lo spostamento che aveva fatto Lagioia, e poi altri dopo di lui, su “l’apologia del fascismo, l’odio etnico e razziale”, che sono pratiche già più riconoscibili, anche se pure queste con estese zone grigie di dissenso su cosa rientri nella definizione, come sappiamo molto bene di questi tempi per via dei quotidiani casi di perplessità sui contenuti diffusi sui social network e sulla loro sanzionabilità. E peraltro, temo che qualcuno troverebbe in molte opere editoriali del presente o del passato (pure tra quelle vendute al Salone) delle predicazioni di odio: saremmo daccapo a cosa fare col Mein Kampf, per esempio. Certo, a ognuno di noi sembra di avere la capacità di distinguere quali siano i libri “pericolosi” in questo senso e quali no: ma per nessuno sono gli stessi, che sia in buona o in cattiva fede. E proprio perché parliamo di eccezioni, di emergenze, di limiti alla libertà, i criteri devono essere estesamente condivisi, e autorevoli: siamo antifascisti.
Queste ragioni mi suggeriscono – nei miei dubbi – di pensare che quello di cui parliamo non sia un caso che possiamo definire per legge, per regola universale: e che quindi siano rispettabili le posizioni di chiunque affermi sinceramente il proprio antifascismo, che questo lo porti di volta in volta a mettere un limite alla libertà di espressione, o che lo porti a non volerlo mettere. L’unico antifascismo insincero è quello che diventa violento e prevaricatore nei confronti di opinioni diverse, che alza la voce: quello è il fascismo.
E poi c’è un’ultima cosa: le emergenze, i tabù, le eccezioni, proprio perché sono dei sacrifici della libertà da non introdurre a cuor leggero, sono motivati da ragioni di efficacia. Per combattere la mafia, il terrorismo, il fascismo, l’antisemitismo, il razzismo: sono il mezzo, non il fine. Esistono proprio perché servono. Ora, io credo che oggi uno dei fattori di successo del proselitismo fascista, razzista, retrogrado, antintellettuale, antiscientifico e troglodita che in tutte queste sue accezioni sta prevalendo, sia la propaganda falsificatrice vittimista che accusa i sistemi democratici e i principi progressisti di “superiorità morale”, di “pensiero unico”, di “omologazione culturale” e di persecuzione conformista di idee presunte “fuori dal coro”: persino oggi che il pensiero fascista, razzista, retrogrado, antintelletualle, antiscientifico e troglodita in tutte queste sue accezioni è diventato maggioritario, è al potere, è cultura dominante ed estesissima, la sua propaganda continua a raccontarlo vittima, perché costretta da questo proprio messaggio a dipingere il mondo come persecutorio. E per farlo, il suo strumento principale (guardate i quotidiani di destra, leggete i tweet di Salvini o Meloni) è l’esaltazione, l’enfasi e la falsificazione di qualunque marginalissima occasione per dipingere presunte “sinistre violente e persecutorie”. Non ci fermeranno, vogliono chiuderci la bocca, guardateli, eccetera.
Sto dicendo, per farla brevissima, che anche i casi più sinceri e benintenzionati di proclama pubblico del proprio boicottaggio del Salone si risolveranno, in termini di efficacia antifascista, in una vittoria della propaganda fascista (insperata, per l’ultimo degli stand presenti). Liberi di pensare il contrario, naturalmente: ma guardate chi vince le elezioni, nel mondo, e guardate se non gli abbiamo fatto la guerra, a parole, appelli e prese di distanza pubbliche (e poco con la costruzione di proposte convincenti alternative).
E ripeto, a scanso di rischi: ogni scelta individuale è legittima e degna, e non bisogna fare tutto per ragioni di efficacia, ma anche per sé (come dice Zerocalcare). “Serve a me”, mi ha risposto giustamente un amico a cui ho chiesto di recente a cosa servisse rispondere con degli insulti a un tweet di Salvini. Però non credo proprio – voglio essere possibilista e sperare di sbagliarmi – che sconfiggeremo l’attecchire quotidiano del fascismo andando via quando ci sono i fascisti, o urlando “vergogna”: quelli si allargano.