Cos’è un’intervista

Ci sono state molte critiche nei confronti di un’intervista pubblicata venerdì dal Corriere della Sera, per i toni accusatori e diffidenti delle domande, come sono state pubblicate, nei confronti di una giovane atleta vittima di molestie sessuali da parte del team sportivo della Nazionale con cui lavorava. Il passaggio che suonava più sgradevole era quello in cui l’intervistatore, a proposito dei fatti in questione, ribatteva “non sono vere e proprie molestie”. Insieme a diverse domande che sembravano voler diminuire la credibilità della ragazza, ha attirato indignazioni diffuse – secondo me motivate – che però non si capisce bene se siano rivolte alle quindi stupide opinioni dell’intervistatore da cui si ritiene discendano quelle domande, o alla pubblicazione delle domande in quei termini e al pessimo servizio informativo ed educativo che ne consegue: insomma, ce l’abbiamo con lui perché pensa delle cose sbagliate o perché fa male il suo lavoro di giornalista?

Rimuoviamo subito la categoria di obiezioni “dito e luna”, e “il punto non è questo”: so ovviamente bene che il punto è un altro, ed è il discorso sulla consapevolezza e comunicazione delle violenze contro le donne. Sono io che sto spostando deliberatamente il punto, perché ci sono sempre molte cose interessanti da capire anche se non sono “il punto”, e perché su quello mi sembra non ci sia niente da discutere (certo che sono “vere e proprie molestie”) né che possa aggiungere io. Mentre magari qualcosa provo ad aggiungere, come al solito, per quanto riguarda la nostra consapevolezza di lettori di giornali.

Molti commenti a quell’intervista assumono che ciò che leggiamo sia ciò che è avvenuto: dirò di più, noi viviamo di solito la lettura di un’intervista su un giornale come se stessimo assistendo a quella conversazione, come se quell’intervista stesse andando in diretta davanti ai nostri occhi, che so, da Fabio Fazio. Uno dei commenti che ho letto – critico, sensato – apprezza che l’intervistata abbia “risposto a tono” e “riportato sulla questione centrale”. Ma il fatto è che noi non abbiamo idea di come abbia risposto, con quale tono, né a cosa. Non perché il giornalista – come accade in molti altri formati del giornalismo italiano contemporaneo – possa avere falsificato e inventato ciò che racconta, tradendo il suo ruolo: ma perché un’intervista è la cosa più lontana da ciò che invece da lettori crediamo che sia, ovvero il formato giornalistico più trasparente e neutro di riportare le parole di qualcuno, di mostrare una cosa. Non lo è.
Un’intervista è un gran lavoro di scrittura, sempre. E se ci fermiamo un attimo a riflettere, realizziamo che nessuna conversazione così come la leggiamo sia realistica. In un libro di quattro anni fa, a margine di una famosa e ancora attuale storia di interviste contestate, spiegavo così.

Un’altra cosa che i lettori dei giornali e delle interviste immaginano è che le conversazioni siano avvenute nella realtà così come le leggono: c’è invece nella scrittura delle interviste un lavoro di editing più o meno intenso, volto a rendere più leggibili ed efficaci il testo e la sostanza delle cose dette. Che però per tutta una ricca scuola di giornalisti italiani ha preso anche il criterio di rendere più teatrali le interviste scritte, attraverso un lavoro di riscrittura delle domande, di parte delle risposte, della loro successione, che spesso è fatto di vere e proprie forzature. Sicuramente della forma, a volte anche della sostanza (approfittando del fatto che ovviamente neanche l’intervistato ha preso appunti o ha registrato il dialogo, e al massimo potrà smentire a parole, scrivendo una lettera che forse sarà pubblicata in fondo alla rubrica della posta con una replica del giornalista che confermerà l’esattezza di quello che ha scritto).

Un’intervista deve quasi sempre essere riscritta. Un primo ordine di ragioni è che l’originale su cui il giornalista lavora è raramente una registrazione audio, spesso è una serie di appunti, a volte persino la sua memoria. Ma anche quando si lavori su una registrazione fedele, la trascrizione sarebbe quasi sempre illeggibile e confusa: sarebbe, per essere chiari, quello che leggiamo quando vengono pubblicate le intercettazioni telefoniche o ambientali, appena un po’ più ordinato. Un secondo criterio di lavorazione delle interviste riguarda la loro lunghezza e ordine. Quello che leggiamo è sempre tagliatissimo. Provate appunto a seguire un’intervista televisiva in diretta – che pure sono molto più preparate e concentrate dei modi conversativi, improvvisati o telefonici in cui si tengono molte interviste che leggiamo sui quotidiani  – e realizzerete che non leggiamo mai trascrizioni così letterali e prolisse sui giornali.

Ci sono poi prima della pubblicazione – e questo è sicuramente il caso dell’intervista accusata in questi giorni – molti interventi dedicati a dare più “ritmo” e consequenzialità all’alternanza tra domande e risposte: tra questi quello più frequente e disinvolto riguarda la riscrittura delle proprie domande da parte dell’intervistatore, in modo appunto da legare meglio le varie risposte, dare maggior senso teatrale al botta e risposta e spesso a mostrarsi – l’intervistatore – più acuto, intelligente o incalzante (io ho grande ammirazione per quegli intervistatori che si dispongono invece a pubblicare persino le domande in cui figurano da scemi, per il bene dell’efficacia della risposta). La misura in cui lo si fa può variare e allontanare anche moltissimo dalla fedeltà a ciò che è stato detto: i quotidiani italiani esagerano molto per poter sparare dei virgolettati grossi, ma alcuni giornalisti lo rivendicano per ragioni di efficacia (qui c’è una netta spiegazione di Gian Antonio Stella, insieme ad altre informazioni più approfondite).
Se non fosse per quell’insopportabile passaggio “non sono vere e proprie molestie” e per il successivo ugualmente definitivo “normali rapporti sentimentali, dunque”, troverei plausibile (ho detto plausibile: fondata non lo so) un’autodifesa dell’intervistatore che delle domande precedenti dica “sono domande esposte da avvocato del diavolo per permettere all’intervistata di ribattere: e per interpretare le eventuali obiezioni di molti, per quanto stupide, e dare spazio alla loro smentita”. E trovo persino probabile che lui quelle domande non le abbia fatte in quel modo secco e aggressivo: se è successo, shame on him, ma noi non lo sappiamo: noi sappiamo ciò che ha scritto e ciò che ha deciso di scrivere. Discutiamo di un testo, un articolo, non di ciò che è avvenuto in una conversazione.

Per questo io credo sia utile spostare la discussione sempre su cosa è giusto pubblicare e in quale forma, ovvero sui fatti: ciò che si è deciso di pubblicare e le sue conseguenze. Non sulle eventuali imponderabili opinioni dell’intervistatore o su come si sia svolta una conversazione. In questo senso quel passaggio, nemmeno interrogativo, “non sono vere e proprie molestie” è l’offerta ai lettori di un’opinione sbagliata, perentoria, ignorante e pericolosa: è la riduzione a “molestiefisiche/tuttobene” di un problema enorme, forse del problema. Ed è un editoriale, non è una domanda strumentale, o una formulazione retorica.
Che poi questo sia figlio di un abbassamento eccessivo dell’asticella dell’accuratezza e della neutralità (neutralità nella scrittura, non nelle opinioni) nella cultura italiana di come si fanno le interviste, è probabilmente quello che volevo dire, ancora una volta.

 

 

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