Black is black

La discussione che impazza da due giorni su un titolo del Corriere dello Sport è buona per mettere in fila alcune considerazioni sul discorso sul razzismo in Italia. Con qualche disordine, ma prendetele come spunti.

1. Mi pare sia la più partecipata e prolungata discussione sul razzismo in Italia, superando per esempio in attenzione e vivacità quella relativa all’antisemitismo di un professore all’università di Siena di una settimana fa. La predicazione antisemita e nazista di una persona in un ruolo educativo importante la digeriamo molto più rapidamente del maldestro e ignorante titolo di un quotidiano per appassionati di calcio. Questo già dice qualcosa sui terreni prevalenti delle animazioni nazionali e su che paese siamo.

2. Discutiamo di razzismo in termini che sarebbero sembrati superficiali e ingenui negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Da una parte è un po’ comprensibile, perché il provincialismo è stato conservato dal limitato multiculturalismo dell’Italia: dall’altra la globalizzazione culturale e informativa fa sì che in Italia oggi convivano appunto atteggiamenti da paesetto novecentesco nei confronti del nuovo e dei diritti insieme a consapevolezze molto contemporanee e internazionali sui temi del linguaggio e delle discriminazioni (sulle donne, in special modo). Io stesso, me ne rendo conto, sto riducendo a pochi punti una discussione su cui sono stati scritti libri, e la complessità è enorme. Niente è esatto, di quel che dico.

3. Detto questo, forse quello del Corriere dello Sport e dei suoi lettori è un piano importante dove osservare il dibattito. Troppo spesso le considerazioni sulle dinamiche razziste – o antisemite – avvengono tra élite colte e informate, che a loro volta credono di individuare tra i veicoli di razzismi e antisemitismi pensieri di una qualche strutturazione storica e culturale, o tra personaggi che con strumenti intellettuali di non grande brillantezza si sono bevuti però teorie e letture con una qualche costruzione paranoica e ingannevole. C’è invece un problema di razzismo ignorante, candido, “popolare”, spontaneo (che riguarda tutti gli umani, ma di più quelli che non hanno consapevolezza delle sue dinamiche) che vola molto basso e si diffonde sotto il livello dei dibattiti. Spesso non è nemmeno implicitamente “malevolo” nelle intenzioni – nei risultati è discriminatorio e arrogante – ma nasce dall’idea che certe persone siano “diverse” perché ci sembrano diverse.

4. E qui c’è uno dei temi fondamentali che spiegano il candore con cui gli autori del titolo “Black friday” dicono di cadere dalle nuvole e rispondono “chi, io?”. A queste persone, che fanno poche elaborazioni su questi temi, è difficile spiegare cosa non va bene. Vado accapo, che questa è l’unica cosa che mi pare importante di tutte queste che scrivo.
Tutto nasce dalla contraddizione apparente tra una narrazione con cui da decenni vogliamo spiegare che le persone sono tutte uguali e un’altra con cui vogliamo esaltare il valore delle diversità e delle differenze. È ovvio a chi ci abbia riflettuto che stiamo parlando di due concetti diversi, distinti e in grado di convivere: vogliamo dire che le persone hanno delle differenze che vanno rispettate e tutelate, che sono preziose, ma che questo non deve rendere diverso il modo in cui le nostre società le trattano e il modo in cui ognuno di noi tratta il prossimo: il modo in cui le pensiamo. Sono ugualmente persone, anche se sono persone diverse. Ecco, questa che ho scritto è già una frase “razzista”: quella giusta è “siamo ugualmente persone anche se siamo persone diverse”.
Ma questa è una considerazione già troppo complessa per le elaborazioni semplificate di moltissimi, e di un quotidiano sportivo. I quali vogliono sapere solo se “black” si può dire o no. A prescindere dal contesto, dalle implicazioni, dalle conseguenze: troppa grazia, troppi distinguo. Si può dire? È una parola razzista, “black”?

5. No, si rispondono in molti: e annunciano che molti neri la usano per cose che riguardano i neri, da sempre, e la rivendicano, e che viene comunemente usata per indicare cose che riguardano le persone di origine africana. “E quindi, cosa volete da noi?” Altri, specularmente, si convincono invece dopo le proteste che “black” sia sbagliato da usare, che sia sbagliato dire “neri”, e si muovono con circospezione intorno a una cosa che non capiscono, vivendola come estranea, diversa. O hanno delle reazioni di automatismo irragionevole, come il bando ai giornalisti del Corriere dello Sport promulgato con un testo goffissimo da Roma e Milan (“vi puniamo, ma solo un pochino, perché siete razzisti, ma solo un pochino”).
C’è del razzismo anche in queste reazioni, ed è perché è in effetti sempre l’ignoranza – e la superficiale rigidità che ne segue – che fa essere razzisti. Che fa sentire gli altri “diversi”, anche se ci sembra di comportarci bene, nei confronti degli altri, di essere gentili con loro, di rispettare le loro regole. Noi li difendiamo, i neri.
“Io li ammiro, gli ebrei“.

6. Il problema del titolo del Corriere dello Sport non è che usi la parola “black”. Sarebbe facile obiettare – qualcuno ci ha provato – che è un tratto esteriore fondato e reale, come ad esempio essere biondo. Se una domenica Mertens del Napoli sbaglia una serie di gol a porta vuota, è del tutto realistico e plausibile che un qualche quotidiano sportivo titoli “Una catastrofe bionda”. Ma non è con questi paragoni astratti che si spiegano i problemi. È guardando intorno, allargando lo sguardo, sapendo di cosa stiamo parlando. Questa è l’ignoranza, non sapere di cosa stiamo parlando.
Intorno c’è un contesto in cui – sulla base di quel colore della pelle, di Lukaku e di altri – Lukaku e altri vengono insultati, aggrediti, discriminati. A partire dall’idea che siano “diversi”, che siano altri. Quello che fa il Corriere dello Sport con quel titolo e quell’articolo antirazzista è dire “dobbiamo avere rispetto per questi neri, per questi diversi“, “smettete di fare boo, perché è una cosa sbagliata, e i black sono come noi”. Però sono black, prima di tutto. E lo dice a un pubblico – quello che fa boo negli stadi – a cui quello che arriva è “sono black, sono diversi”.

7. Sono anni che scrivo di quanto siano dispersive, fuorvianti e sciocche le discussioni intorno alle etichette che rimpiazzano quelle sulle cose: le etichette sono sbrigative, equivoche, ambigue, vogliono dire tante cose e ognuno le intende in un modo diverso; i significati invece sono vari, articolati, complessi, diversi di volta in volta. Quindi non voglio impiccare queste considerazioni alla definizione di cosa sia razzismo e cosa no, chissenefrega: il problema è come ci si comporta con gli altri, se si capiscono le persone, se tutti hanno uguali diritti. Se invece finisce a “sei razzista! No, non sono razzista, guarda cosa ho fatto!”, questo vuoi chiamarlo dibattito sul razzismo? È un dibattito su un’etichetta.
Ma detto questo, provo a non usare la complessità del tema come alibi, e a dire una cosa di sintesi per limitare gli equivoci: chiamo razzismo il nostro estendere ad aspetti, giudizi, e comportamenti più vari e importanti una percezione di diversità che è limitata invece a tratti completamente superficiali. Per esempio, pensare un nero diversamente da come pensiamo un bianco, aspettarsi che ragioni e si comporti secondo meccanismi diversi. E comportarsi con lui diversamente, solo sulla base di quello. Lo chiamo razzismo.
Per capirsi ancora di più, non penso sia razzista parlare a voce molto alta con una persona sorda: lo facciamo a partire da un’informazione su quella persona che induce comprensibilmente quel comportamento. Ma se parlo a voce molto alta a una persona di pelle scura, sono razzista (lo è anche una persona di pelle scura che parli a voce molto alta a me, a meno che non abbia saputo che in effetti ultimamente ci sento peggio).

8. Concludo, con una cosa più generale, di certo banale, ma ineludibile. Immaginiamo che sulle coste di Lampedusa e della Sicilia arrivino ogni settimana barconi carichi di persone danesi, fatte a forma di persone danesi. E che muoiano, affondando, e che corpi di bambini danesi siano raccolti in mare e mamme danesi si disperino davanti alle telecamere e accusino chi non le ha aiutate. Gli italiani che oggi vivono con indifferenza o rimozione le tragedie dei migranti, le vivrebbero con le stesse indifferenza e rimozione? Identiche? Immaginiamo che siano italiani, quei migranti e quei bambini: che migliaia di figli e nipoti di italiani in fuga da una nostra vecchia colonia muoiano ogni mese cercando di arrivare in Sicilia sui barconi. I sentimenti – parlo dei sentimenti – di noialtri italiani qui, sarebbero gli stessi? Io sono sicuro di no. Penso sia normale? . Penso sia giusto? No. Penso debba definire i nostri comportamenti e quelli dei nostri Stati? Ma neanche per sogno. Quello che è normale è spesso ingiusto, e cerchiamo di trattenerlo, attenuarlo, correggerlo, perché siamo esseri pensanti e consapevoli, e ci diciamo “civiltà”. E quindi non titoliamo “Black friday”, malgrado Lukaku sia black.

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