Di cosa aver paura

Senza sottovalutare nessun rischio, mi fa impressione il livello di confusione che c’è in giro tra il timore delle conseguenze potenziali, future e sconosciute del coronavirus, e quello delle conseguenze reali, presenti e conosciute. La confusione è generata da tre fattori principali, mi pare:

– la limitata conoscenza che abbiamo del virus, e quindi va’ a sapere i pericoli
meccanismi psicologici che ci fanno affrontare poco razionalmente la paura e l’ignoranza delle cose
– il concorso di una cospicua dose di allarmismo quotidiano da parte dei media, in parte conseguenza delle stesse paure di cui sopra, e in parte invece strumentale alle più generali e congenite inclinazioni al terrorismo da parte dei media

Sul primo non si può fare niente: si sa quello che si sa, e non è molto, e le cose cambieranno lentamente. Sul secondo ognuno può gestire la propria lucidità e fidarsi degli esperti, e provare a controllare l’irrazionale, che però è poco controllabile per definizione. Sul terzo proverò a fare la mia piccola parte e a mettere in fila le cose che ho capito leggendo molto e ascoltando alcuni esperti.

In questo momento non sappiamo quanto sia pericoloso il virus: intendo dire con quale probabilità se ne possa morire quando lo si contrae. Il cosiddetto “tasso di letalità” (da non confondere con il “tasso di mortalità”) che viene raccontato è comunque relativamente basso (2%) e minore di altre epidemie recenti, ma soprattutto è calcolato a partire dai casi individuali di contagio che sono stati verificati singolarmente attraverso analisi di laboratorio. Quel numero di morti non è il 2% del totale delle persone effettivamente contagiate, ma è il 2% delle persone di cui sappiamo con certezza che sono state contagiate. Per capirsi: il numero delle persone che contraggono il virus dell’influenza stagionale lo calcoliamo estrapolando e sintetizzando una serie di dati: non lo otteniamo contando una a una le persone con l’influenza, che sarebbe impossibile. Né è sempre sancito formalmente e ufficialmente che una malattia mortale sia stata aggravata o favorita da un’influenza. Quindi quando si dice che il tasso di letalità dell’influenza stagionale è dello 0,1% ci si riferisce a un numero ipotetico ma realistico dei contagiati e dei morti. Nel caso del coronavirus no: ci si riferisce a un numero reale ma parziale di contagiati. Assumendo quindi – come è ovvio e condiviso – che i contagiati effettivi siano più di quelli censiti attraverso analisi di laboratorio, la percentuale del 2% non può che diminuire: ma non sappiamo di quanto, perché non sappiamo quanti sono i contagiati effettivi. In teoria il tasso di letalità potrebbe essere persino più basso di quello dell’influenza. Non ne abbiamo idea, al momento.

Questo però significa che per quello che sappiamo oggi, non ci sono necessariamente molte più probabilità di morire dopo aver contratto il coronavirus di quante ce ne siano facendosi venire l’influenza stagionale. Per dire: le persone che si trovano sulle nave dove è stato individuato un contagiato non hanno ragioni di temere un contagio più rapido e diffuso di quello dell’influenza, e soprattutto non rischiano di morirne più di quanto non morirebbero per un’influenza. Quelle persone sono “in quarantena” non perché siano in pericolo, ma per limitare il rischio che possano essere veicoli di una maggiore diffusione del virus. Lo stesso vale per le preoccupazioni quando si individua un caso di contagio in un paese o una città o un’area nuova: il timore non è che le persone in quell’area siano in pericolo di vita, ma che la potenziale diffusione del virus ne venga accelerata.

E qui veniamo alla confusione tra paure. C’è una paura motivata, ed è quella esplicitata da molti organismi medici internazionali: è la paura di quello che il virus potrebbe diventare e quello che potrebbe generare. È una paura fondata sul non conoscerlo, e quindi tutto può essere e i rischi ipotizzabili sono così preoccupanti che a prescindere dalla loro probabilità di realizzarsi c’è ragione di essere comunque preoccupati e prudenti. Lavorando con molta attenzione a contenere l’estensione del contagio, prima di tutto. È così che si esaurì a un certo punto il pericolo della SARS: non furono scoperti vaccini, ma si fece in modo che a un certo punto non si diffondesse più.

Volendo fare degli esempi spicci, noi umani possiamo avere due tipi di paure per le nostre vite: paura per noi stessi come individui nell’immediato (che un’auto ci investa se attraversiamo nel punto sbagliato, che cadiamo da un balcone sporgendoci, che un rapinatore ci spari, che fumare ci faccia venire il cancro); e paura per il futuro del genere umano o delle nostre comunità con ricadute sulla nostra stessa sopravvivenza (che la Terra sia sommersa per il riscaldamento globale, che ci sia una carestia, che il sistema monetario mondiale crolli, che si instauri una dittatura assassina).
Nel caso del coronavirus la paura saggia e legittima da avere è in questo momento la seconda, ed è su questo rischio che si sta lavorando. La prima non ha ragioni eccezionali di essere, in questo momento: morire per il coronavirus è raro, anche se non sappiamo quanto raro. Se vengo contagiato il problema è per tutti in futuro, più che per me come individuo ora.
Per quello che ne sappiamo, oggi.

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