Su che cosa metteremo le mani

Prima di finirci dentro fino al collo, da lunedì mattina, usciamo un momento dalla palude del come saranno questa settimana e le successive, e mettiamo qualche pensiero alle prospettive più lunghe, quelle che oggi permettono riflessioni le più varie, proprio per la loro imprevedibilità.

Mi pare intanto che in questi due mesi siamo già entrati in un diverso ordine di idee: abbiamo passato le settimane di marzo in un’iniziale sensazione che quello che stava succedendo fosse una parentesi di cui immaginare se la durata sarebbe stata di qualche settimana o qualche mese al massimo. Adesso siamo tutti consapevoli che sarà più lunga e soprattutto che non sarà una parentesi, di quelle che si chiudono e il discorso riprende intatto da dove era stato sospeso. Qualunque progressiva “normalità” eventuale non sarà più normale come prima per un bel po’. La normalità non la fanno l’apertura dei parrucchieri o di Ikea, ma la serena e indifferente abitudine a poter stare vicini tra umani, congiunti o ignoti che siano, deliberatamente o casualmente che sia. E questa è una cosa che difficilmente tornerà come prima per un periodo lungo.

Per immaginare cosa succeda dopo un trauma globale di queste dimensioni, se davvero “niente sarà più come prima” oppure qualcosa sì e qualcosa no, ho recuperato dalla memoria recente tre eventi molto diversi tra loro – e molto diversi da questo – che hanno cambiato il mondo, nel momento in cui sono accaduti. Uno è l’AIDS, uno è l’11 settembre, uno è la rivoluzione digitale. E ho provato a ricostruire se dopo ciascuno di questi “niente è stato come prima” o quanto sì e quanto no.

Nel caso dell’AIDS – senza necessità di grandi premesse sulla drammaticità tragica di quello che è successo e che ancora succede, in misure più contenute – mi pare si possa dire che la frase non corrisponda alla realtà: nelle nostre società almeno, quel periodo è sembrato cambiare tutto su un piano primario come quello del sesso e dell’amore, ma oggi la parentesi si è piuttosto chiusa. Le nostre società e noi umani siamo tornati a un rapporto col sesso e l’amore simile a quello di prima dell’AIDS, forse con qualche consapevolezza in più sull’uso di precauzioni sanitarie (ma nemmeno così diffusa). L’AIDS ci ha fatto soffrire molto – come umanità – e ancora fa soffrire molti, ma non ci ha cambiati.

L’11 settembre ha cambiato a sua volta un gran pezzo delle quotidianità nell’immediato: i viaggi prima di tutto, ma anche molte altre parti di vita pubblica, introducendo la consapevolezza del pericolo terrorista islamista che poi sarebbe stata confermata con sviluppi successivi fino a questi anni. Abbiamo cominciato a comportarci diversamente – daccapo, parlo di umani, di società: non dei singoli, che ognuno ha le sue sensibilità -, le comunità e i loro funzionamenti hanno introdotto delle prudenze e delle abitudini nuove che sono ancora con noi. Non è vero che “niente è più come prima” – molto lo è – ma per una parte di cose è vero.

La rivoluzione digitale – chiamiamola così, capiamo a cosa mi riferisco – è l’evento per cui è più palesemente indiscutibile che da quando è iniziato e proseguito “niente è più come prima” (ok, “niente” è sempre troppo assoluto: il profitterol è come prima – però anche  quello è più facile da fare -; il tramonto è come prima – ma lo metti su Instagram -; beh, qualcosa ci sarà, ora non è importante). Non mi pare ci sia bisogno di argomentare come non si tratti certo di una parentesi, e come abbia ribaltato le nostre vite e i nostri mondi in modi per cui il prima non tornerà più.

Ecco, pensavo (non sto facendo gran teorie, sono pensieri della domenica), in quale di queste categorie metteremo, tra cinque o dieci anni, questo periodo? In quella dell’AIDS o in quella dell’avvento di internet, o in una nel mezzo come l’11 settembre? Il 2024 somiglierà al 2019, o sarà un mondo del tutto diverso in cui ci riferiremo a questo 2020 come l’anno che cambiò tutto quanto? E allora parleremo di nativi virali per quelli che cresceranno nell’epoca che inizia, e non conosceranno quella di prima? E cercheremo modi di ricostruire disperatamente le economie di settori schiantati, mentre altri e nuovi prospereranno? Eccetera? E noialtri racconteremo le cose che facevamo prima a ragazzi giovani increduli o annoiati, o schifati (“vi pigiavate sudati negli stadi ai concerti? Che orrore!”)?

Ancora una volta – lo si è detto molto, in queste settimane – si vede che mettere in conto ipotesi sul futuro può essere una buona occasione per provare un po’ a gestirlo invece di farsene travolgere (come è avvenuto con internet) senza capire niente di cosa stia succedendo se non dopo, salvo rari illuminati visionari (che poi diventano ricchissimi e più potenti degli stati). Anche su scale più concrete, non c’è mai stato un momento migliore per “cambiare le cose che non vanno” (come ha detto persino Giuseppe Conte sull’Italia in una delle sue ultime dichiarazioni al paese). I vincoli del consenso (popolare e normativo) che hanno “bloccato le democrazie” in questi anni, riducendo ogni potere innovativo e sovversivo di qualunque potere democratico, in questa situazione potrebbero essere indeboliti. Se chiedete a me – e se ci guardiamo in giro anche solo qui da noi – non abbastanza, evidentemente: e comunque per scelte coraggiose e riformiste (faccio un  esempio: sulla scuola) servono non solo occasioni eccezionali, varchi, ma leader in grado di approfittarne. L’Italia non ci è arrivata con il materiale migliore: però nei film – nei film – capita che siano i momenti in cui danno il meglio i più inattesi.

Ma insomma, per stasera non torniamo su queste piccolezze che ci peggiorano sempre e ci sprofondano in sterili delusioni e risentimenti (anche me, come si vede). Ce lo siamo detto. Invece riflettere, mettere carne al fuoco delle ipotesi e degli scenari, parlarne, fa bene: hai visto mai che qualcuno di noialtri non si riveli, tra dieci anni, quello che aveva immaginato tutto.

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