Le persone di buona volontà ogni tanto alzano la testa per vedere a che punto è il risultato complessivo del lavoro di miglioramento delle convivenze, di efficacia del funzionamento delle comunità, di qualità delle relazioni e delle vite civili, in cui sentono di essere impegnate, in un modo o un altro; ma a quelle persone viene immediatamente la tentazione di tornare a tenerla bassa sul loro spazietto, la testa, di questi tempi. Mi capita di parlare con alcuni che hanno sinceramente a cuore beni comuni più larghi, e anche quelli che non sono scorati e impigriti si sono però quasi sempre convinti che questi siano tempi, appunto, da costruire piccole cose buone, rinunciando alle maggiori ambizioni che i modelli possano estendersi e prevalere: tira un’aria del tutto diversa, pessima, se alzi la testa e guardi un po’ oltre, dicono. E farlo rischia di suggerire un’impressione di sterilità delle cose che fai, per la sproporzione di risultati.
Cercare di migliorare il mondo può essere un mezzo o un fine, e in realtà è tutte e due le cose. C’è chi fa buone cose nel suo piccolo sperando che siano un prezioso pezzetto di un lavoro comune che migliora il mondo, e quella è la sua ambizione: un mondo migliore da guardare ed esserne contenti e soddisfatti. C’è chi fa cose buone che provino a migliorare il mondo sperando che queste abbiano delle ricadute sulle vite di molti (e quindi di tutti), sui pezzetti, sul proprio piccolo. Il disincentivo maggiore, di questi soliti tempi, è la sensazione che la partecipazione a questo impegno non sia estesa abbastanza, e che anzi diminuisca e venga disincentivata proprio da coloro – leader, rappresentanti di istituzioni rilevanti e autorevoli, classi dirigenti – che ne dovrebbero essere invece ispiratori e moltiplicatori. Si cerca di svuotare un lago con un secchiello, e intanto le pompe restano ferme lungo la riva.
L’assenza dall’offerta politica progressista italiana di qualunque promettente proposta alternativa alla palude attuale – parlo del sostegno a un governo guidato da avversari, e l’assoluto silenzio progettuale – ne è un esempio, spettacolare, ma non ridurrò questa riflessione della domenica a queste piccolezze. Bisognerebbe guardare oltre.
Oltre si vede poco. Siamo stati tutti assorbiti dallo spirito del millennio, ovvero i limitati orizzonti. Passiamo le giornate a scrivere manciatine di parole polemiche su questo o quel social network, a firmare petizioni online di cui guardare crescere i numerelli, a rivendicare dichiarazioni di appartenenza con quello che leggiamo o guardiamo, a esibire “resistenze” che suonano fallimenti, a compiacerci di volatili vittorie di tappa, e così se ne vanno le giornate. Certo, moltissimi fanno cose preziose e utili, ma come dicevo all’inizio il loro risultato sembra applicarsi ad ambiti circoscritti: riserve indiane di scale diverse di bene comune e di consapevolezza del bene comune. Il pensiero dominante è un altro, l’egemonia culturale oggi è di una cultura egoista, risentita e bellicosa.
Faccio un altro esempio di piccolezza locale? Tra i venti più venduti quotidiani italiani solo due sono in un loro modo di sinistra, e sono rispettivamente della Fiat e dei vescovi. Oppure date un’occhiata alle proprietà e alle proposte delle televisioni, poi. Mezzi di comunicazione di massa.
Il pensiero progressista è minoritario e sconfitto, e per capire se si riprenderà bisognerebbe capire cosa sia, nel 2020, il pensiero progressista. Io penso che sia un po’ le cose che avevo scritto a un certo punto qui, ma che oggi soprattutto sia ogni ricerca di un modo per sconfiggere – sconfiggere, non “resistere” – il pensiero dominante retrogrado e divisivo di “populismi”, sovranismi e compagnie varie. Che è un pensiero sostanzialmente alimentato da una cosa sola: l’ignoranza.
Il “populismo” vincente è quella cosa che ha sradicato l’idea di “bene del popolo” propria delle sinistre e ne ha fatto un’altra cosa, più facile e più truffaldina. Il modo in cui i progressisti hanno sempre pensato al bene del popolo è quello di dare alle persone tenute lontane dall’istruzione, dalla cultura, dalla consapevolezza, le stesse occasioni e opportunità per possederle che hanno le élite privilegiate. Non sarò il millesimo che dirà di andarsi a rileggere Don Milani, anche se è vero che poi non ci va mai nessuno: «La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale».
O, in una sintesi di Michele Serra:
Conoscere è un privilegio e la discriminazione più profonda è quella culturale. Come diceva Don Milani, il padrone è padrone perché conosce mille parole, mentre l’operaio cento. L’ignoranza è subalternità, anche se purtroppo oggi la subalternità viene quasi rivendicata.
Quest’idea è oggi attualissima, anche se va adattata a una società in cui la gran parte dell’ignoranza è prodotta non più da una mancanza di accesso agli strumenti di istruzione, informazione, cultura, ma da un’usurpazione del loro spazio da parte di un’offerta informativa e culturale di pessima qualità e di un’istruzione inadeguata e con scarsi mezzi e idee. Questo l’aveva detto bene Goffredo Fofi, invece, qualche anno fa, in un libro che – questo sì – mi permetto di dire a chiunque di leggere:
Ma io credo – e voglio insisterci – che in Italia bisogna pensare anche ad altri tipi di «poveri», agli oppressi della coscienza, a tutte le persone che vivono in una condizione di anomia morale o di servitù materiale […] Si può venire usati come carne da macello non solo per la conquista di un territorio o la difesa di un’ipotetica frontiera: si è trattati da carne da macello, lo si voglia o meno, anche davanti a una banale cabina elettorale.
Quelli che vengono oggi chiamati “populisti” e che a me sembrano solo sfruttatori e coltivatori dell’ignoranza per i propri interessi di autopromozione e potere, hanno annullato le ambizioni progressiste di dare a tutti le opportunità di conoscere e capire le cose, e di diventare così parte del “potere”, con una predicazione che ha raccontato e racconta a quelle persone una scorciatoia ingannevole e fallimentare: non avete bisogno di strumenti né di occasioni né di opportunità, andate bene così. Avete ragione, in quanto popolo, in quanto voi stessi. E se fallite, è colpa di qualcun altro, e dovete incazzarvi: non capire. Il populismo coltiva l’ignoranza delle persone e se ne serve proprio come faceva l’aristocrazia di un tempo. E gli oppressi di oggi – gli “oppressi della coscienza” – sono le vittime dell’informazione bugiarda e dei modelli culturali mediocri, che siano promossi da giornali, libri, programmi televisivi, musica, influencers, o eccetera.
Ancora Fofi, in un articolo sull’Unità del 2010, criticando l’indolenza degli intellettuali progressisti.
La zona grigia andrebbe svegliata e recuperata a una cultura di sinistra. Ma se questa cultura è morta e sepolta? Non resta allora che attendere che si svegli da sola, o che ci siano piccole minoranze che sanno rivolgersi ai meno drogati e anestetizzati al suo interno. Per esempio, ai più giovani, e il «progetto pedagogico» di questi pochi refrattari e non-accettanti dovrebbe essere quello di strappare alla maggioranza sonnambula almeno una parte dei loro figli e nipoti. Ovviamente, pensando e studiando, per proporre un’idea adeguata del mondo e del futuro, che vuol dire ricostruendo un corpo di idee di sinistra, il che avverrà solo se si rinuncerà a piacere alla massa e si accetterà anzi di dispiacerla per lungo tempo. Indicare il vero e il giusto, in particolare in Italia dopo trent’anni di cedimenti e corruzioni d’ogni tipo, non sarà facile, e non porterà per lungo tempo molto «consenso».
È questo, ancora oggi, un pensiero e un progetto progressista: lavorare sul lungo per creare persone informate, curiose, consapevoli, che migliorano il mondo e il mondo migliora loro. E per creare una società in cui l’ignoranza individuale non venga premiata a danno delle comunità. Grazie al cielo ci sono molti che ci lavorano, senza rappresentanza. A volergli bene, alle persone, e a volere il loro bene. E ad assottigliare il bacino di ignoranza e bugie nutrito strumentalmente dal peggio vincente di questi anni. Ci vorrà del tempo.