La paura degli immigrati spiegata coi monopattini

Sono i giorni dell’anno in cui scrivo un post sui monopattini, di solito. Ma dall’anno scorso non è più successo molto di nuovo, se non che Milano (anche Roma, forse) è diventata come Parigi e ci sono almeno sei diverse società e monopattini un po’ ovunque (Helbiz ha un’area di copertura più estesa; Dott ti risparmia la foto del parcheggio; Bird e Circ – gemelle – hanno un’accelerazione inebriante e pericolosa).

Quindi rimando ancora al post dell’estate scorsa (che rimandava a quello dell’estate precedente, lo so), soprattutto per quanto riguarda la mia obiezione principale alle critiche – in parte comprensibili – ovvero che valgono quasi tutte anche per le biciclette: e se siamo sopravvissuti con le bici sui marciapiedi, con le bici parcheggiate male, con le bici senza le ciclabili, con la gente che guida male le bici, eccetera, non vedo cosa cambi coi monopattini.

O meglio, una cosa la vedo, ed è interessante: mi pare evidente che la differenza – come con molte altre novità – stia esattamente nel considerare le biciclette e la loro esistenza parte del mondo che conosciamo e di cui tolleriamo eventuali complicazioni rispetto ai benefici e alla diffusione; mentre i monopattini sono nuovi, estranei, non ci siamo abituati.
Sono diversi, prima non c’erano, non fanno parte della nostra tradizione, ci fanno paura, sopravvalutiamo ed esageriamo i numeri e i dati sugli incidenti che creano.

Suona familiare, no?

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