Avevo scritto un post, dieci giorni fa, che poi ho accantonato: a volte lo faccio, ché rileggersi e riflettere sulla eventuale incompletezza dei propri argomenti, o sulla semplice volatilità di alcune opinioni, è una cosa utile. Come lo è anche scriverli, e metterli in ordine, senza bisogno di pubblicarli. Altre volte i pensieri cambiano se si lascia passare una giornata.
In questo caso però era intervenuto un altro fattore, di cui abbiamo parlato spesso negli ultimi anni: il senso di sproporzione tra l’inclinazione a esporre una propria esperienza o pensiero – quello che pratichiamo online con frequenza e chiamiamo “condivisione” – e le reazioni noiose che si prevede che generi. Il “chi me lo fa fare”. Non ne vale la pena.
Sono passati dieci giorni e c’è stato un “cessate il fuoco”: sia uno vero, che uno conseguente sui social network. Ma soprattutto, c’è stato il caso di Emily Wilder, una giovane giornalista appena assunta ad Associated Press che è stata licenziata in seguito a una campagna online contro di lei da parte di alcuni gruppi di destra che hanno esibito alcuni suoi tweet con posizioni solidali nei confronti della causa palestinese (Wilder è ebrea, tocca aggiungerlo) contestando la sua assunzione da parte di Associated Press, l’agenzia di stampa più famosa e autorevole del mondo (che dice ai propri giornalisti di non esporre mai opinioni). Questa delle opinioni, è una questione importante su cui si dicono sempre un sacco di sciocchezze, nutrite da letture ingenue della formula “i fatti separati dalle opinioni” che non sanno comprendere il significato di “separati”. Ma non è la questione di questo post: in moltissimi in questi giorni, negli Stati Uniti, hanno criticato la decisione di AP e la fragilità delle sue vaghe spiegazioni (Wilder poi era stata assunta a occuparsi di notizie locali e interne, senza neanche fare reporting suo) e adesso i responsabili dell’agenzia sono in grosse difficoltà nel cercare di attenuare l’effetto sulla propria credibilità.
La questione di questo post sono la forza e il potere che si stanno progressivamente consegnando a campagne di aggressione online che di sincero, obiettivo e imparziale non hanno niente e che sono usate come strumento ideologico contro un’informazione che cerchi di fare il proprio lavoro: campagne – organizzate o alimentate da singolari volenterosi carnefici – che fanno, cioè, esattamente quello che contestano, applicare partigianerie strumentali al giornalismo. Possono avere a volte ragione e ogni cosa è criticabile (io stesso non sono tra i meno critici): questo non toglie che a giornali e giornalisti devono essere consentite indipendenza e autonomia di giudizio senza linciaggi o minacce. E i giornali devono avere la forza di non farsi intimidire, e di non dover reagire legittimando l’idea che ci debba essere una par condicio nel racconto dei fatti, come ha fatto qualcuno difensivamente in questi giorni. Questo intendeva dire, quel post un po’ sbrigativo e irritato che avevo pavidamente accantonato dieci giorni fa.
Le intimidazioni bulle sui social network da parte dei perditempo ultras di questo o quel leader politico, che sono parte di un rumore – non un brusio, un frastuono – di sottofondo di ogni giornata online, hanno dei precursori, che hanno insegnato tutto a tutti, e che si manifestano a ondate più isolate ma vigorose: i teppisti della tragica e insuperabile guerra tra israeliani e palestinesi.
È una cosa che conoscono in tutte le redazioni: appena ci sono notizie e aggiornamenti e novità – quasi sempre drammatiche – che arrivano da quel contesto, pattuglie speculari cominciano ad assediare testate e giornalisti di attacchi, minacce, insulti e pretese altrettanto speculari. Gli stessi articoli sono accusati di partigianerie opposte da entrambe le curve, non perché lo siano (nella gran parte dei casi non lo sono) ma per sottoporre a pressione ricattatoria chi li scrive e li pubblica e spostare a proprio favore la rispettiva quota di propaganda. E si resta abbastanza increduli delle certezze assolute esibite dalle falangi opposte: non tanto perché le certezze assolute siano una sciocchezza – lo sono, ma una sciocchezza assai frequente – ma per come coesistano certezze assolute appunto opposte, e ciascuna delle due pretenda che il mondo si converta alla propria.
Come dicevo, non suona più tanto strano, ora che la stessa logica e la stessa violenza sono applicate quotidianamente anche alle conversazioni sugli ingredienti della pizza: ma è interessante notare come quel meccanismo originario non si arresti imbarazzato nemmeno vedendosi appunto riflesso e superato nelle sciocchezze di ogni giorno. E quando le cose diventano gravi e tragiche, come in questi giorni, si ridesti eccitato di poter tornare ai propri posticci e protetti posti di combattimento verbale, ora senza più nemmeno il bisogno di mettere il minaccioso foglio nella macchina da scrivere, e ogni giorno che passa con maggiore distanza e ignoranza dalle cose di cui si parla e dalle loro gravità e complessità.