Il nome di una via

Ho passato molto tempo della mia infanzia a Pisa, ragazzeria, in via D’Achiardi. Non in una casa, o in un qualche locale o bar di via D’Achiardi: proprio in mezzo alla strada.
Via D’Achiardi è una strada di villette residenziali alle spalle del carcere Don Bosco, molto ignorata da chi non ci vive perché il traffico nella zona passa per altre strade maggiori: non ci vado da tantissimi anni, ma per quello che conosco la viabilità attuale questa condizione di tranquillità dovrebbe essere rimasta. Era per questo che stavamo tantissimo tempo in mezzo alla strada, a giocare a pallone usando i cancelli delle villette come porte.

A Pisa furono cacciati e “sostituiti” ben 20 docenti su 400, di cui – dopo il 1945 – solamente 5 sarebbero tornati; degli altri una, Enrica Calabresi, si suicidò per sfuggire alla deportazione e due, Ciro Ravenna e Raffaello Menasci, vennero inghiottiti dall’abisso della Shoah. Il numero degli studenti ebrei italiani rimane ancora oggi ignoto, mentre sappiamo che tutti i 290 studenti ebrei stranieri vennero espulsi.

L’altra ragione per cui eravamo lì – parlo del periodo tra la mia seconda e terza media, 1977 e 1978, lo lego ai mondiali argentini – era che io e mio fratello avevamo fatto amicizia con dei compagni di scuola che abitavano lì e facevano un gruppo di età uguali o minori e quasi tutto maschile che si radunava in via D’Achiardi. Al pomeriggio, o le sere d’estate. C’era una grande rivalità con i ragazzi di via Flamini, due isolati più in là.

Alle responsabilità generali del regime si aggiunsero quelle locali: i consigli di facoltà, i presidi, il senato accademico, i docenti che profittarono dell’occasione di “posti liberi” e sostennero le deliberazioni come spettatori e, talvolta, come delatori. Ben pochi si dimostrarono solidali con le vittime. Ci furono infine le responsabilità, primarie, del Rettore. Nel 1938, il Rettore era il professor Giovanni D’Achiardi.

Abitava in via D’Achiardi anche “il professore”, come lo chiamavano tutti, un ex insegnante di educazione fisica che per percorsi che ora rimpiango di non avere mai indagato si era appassionato al baseball e aveva costruito una squadra di ragazzini aggregando soprattutto quelli che abitavano nella zona. Mi intrufolai anche nella squadra, ero una gran schiappa, piccolo e gracile, giocavo esterno destro dove non arrivava mai una palla, e il resto della storia sul baseball l’ho raccontato qui.

Oltre che docente di mineralogia fu anche una figura pubblica del Regime sebben avesse iniziato le sue relazioni con il fascismo in modo conflittuale. Fu eletto rettore una prima volta nel 1923. Negli anni successivi ebbe ancora occasioni di contrasto con il fascismo locale, che però vennero superate negli anni Trenta.

Baseball a parte, giocavamo a pallone e guardavamo calcio in tv nelle case di alcuni dei ragazzi residenti (erano tempi in cui alle 18 sulla Rai veniva trasmesso un tempo – registrato – di una partita di Serie A giocata due ore prima): giravamo in bicicletta, d’estate c’erano animate battaglie di gavettoni che irritavano comprensibilmente gli abitanti della via (uno di loro era famigerato poi per bucare i palloni finiti nel suo giardino, in cui ci avventuravamo terrorizzati e silenziosi a cercare di recuperarli), avevamo un precoce culto dei brand sportivi (Fila, Ellesse, oltre a quelli tuttora sopravvissuti) e delle sneakers (Nike doveva venire, la competizione era familiare, Adidas/Puma, il resto erano considerate minori). Uno di noi, il capo della banda, che abitava al centro della via, aveva ricevuto una precocissima versione di Pong, il videogioco: che cosa pazzesca.

Nel 1934 venne nominato Senatore; nel 1935 divenne di nuovo Rettore dell’ateneo; nel 1936 addirittura Podestà della città e, infine, dal 1936 al 1937, assunse anche la carica di Direttore della Normale. La concentrazione dei poteri a sua disposizione fu formidabile.

Eravamo piccoli, c’era anche un gruppo parallelo di liceali della via, che ci bullizzavano amichevolmente, uno di loro mi ha chiamato per strada a Milano, la settimana scorsa: fa il medico, non lo vedevo da almeno trent’anni, abitava in via D’Achiardi. Poi finii le medie, andai al liceo anch’io e cambiai compagnia, con un salto culturale a cui non ero preparato e in cui tutti sembravano molto “grandi”, ascoltavano musica ignota, si fidanzavano, andavano in discoteca, parlavano di cose personali e serie, occupavano la scuola. Fine del pallone tra ragazzini nanerottoli in mezzo alla strada in via D’Achiardi: ma me li ricordo tutti, come Guccini nella canzone.

Il Rettore D’Achiardi fu quindi il primo responsabile dell’epurazione dei docenti ebrei, a partire dalla compilazione della lista, sul censimento dell’estate 1938, e della selezione razziale degli studenti. Si preoccupò solo per le ripercussioni economiche per l’Università.

I testi citati in mezzo a questo post vengono da una petizione, giusta, pubblicata online nei giorni scorsi da persone di Pisa che hanno tardivamente scoperto – in quella strada secondaria, ignorata dei più – la celebrazione di un nome sbagliato da celebrare. Ad attenuare le conseguenze di quello sbaglio, nemmeno io mi ero mai domandato chi fosse il D’Achiardi di via D’Achiardi.

Noi non vogliamo giudicare il suo lungo tragitto pubblico: Primo Levi ha scritto che “la zona dell’ambiguo non la si può tagliare in due con una linea retta”. La condotta del Rettore Giovanni D’Achiardi nel 1938 ci pare tuttavia inequivocabile sul piano del giudizio storico, ed è la memoria di quei venti docenti, degli studenti italiani, dei 290 studenti polacchi lituani ungheresi boemi ricacciati verso i propri paesi intolleranti – e la Shoah in agguato – che ci spinge a considerare inammissibile che una via della città di Pisa gli sia ancora intitolata.

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