Fuori o dentro

Nelle democrazie occidentali contemporanee un partito che aspiri a diventare di maggioranza, e a riuscire quindi a governare con una quota di potere adeguata a perseguire i propri obiettivi, deve per forza comprendere dentro di sé molte posizioni, aspirazioni, visioni diverse, che di volta in volta si sentiranno più o meno rappresentate dalla sua leadership, espressione della maggioranza interna al partito.
E ancora di più in questi tempi divisi, individualisti, frammentati, in cui ogni desiderio personale è presentato come una rivendicazione politica, è ingenuo e impensabile che un partito di ambizioni maggioritarie (almeno maggioritarie relative) comprenda invece solo eletti ed elettori che si piacciano o si assomiglino. “Impensabile” non è la parola adatta, realizzo mentre la scrivo: è una cosa che in effetti pensano in molti, che il voto per un partito richieda di essere simili, ed è alla base delle continue scissioni, dei partiti personali, delle pretese di molti elettori di trovare riconosciute tutte le proprie inclinazioni in quelle del partito che voterà.

Ma così non può funzionare (e infatti non funziona, direte voi: e abbiamo sempre mille partiti, e abbiamo l’espressione “turarsi il naso” per sprezzare o giustificare la scelta di partecipare – al momento del voto – a un’eterogenea comunità che condivide alcune cose importanti): il risultato è una politica sempre litigiosa che è al tempo stesso espressione e causa di un paese litigioso, in cui prevalgono sempre le ragioni per non votare qualcuno rispetto a quelle per votare qualcuno, in cui si registrano sempre le cose che non piacciono e si rimuovono quelle che piacciono (in conversazioni su Twitter oggi ho letto rispettivamente che “il PD non ha più niente di progressista” o che “il PD non si rivolge mai agli elettori di sinistra”: che insomma, forse è un po’ troppo, no?), in cui ci si fanno venire crisi nervose per le convivenze indesiderate e non si sa mai godere delle capacità di costruire comunità e progetti condivisi.
«Se c’è lui, allora io no»: e spesso lo dicono gli stessi che chiedono “programmi e non nomi” (e che di solito non leggono i programmi).

Ancora di più in tempi in cui i partiti sono diventati una cosa molto marginale e meno identitaria di un tempo, nelle affermazioni individuali delle persone: sono la cosa che votiamo una volta ogni tot anni sperando che questo ottenga che accadano alcune cose che vorremmo, non sono quello che siamo.
E perché accadano, è meglio che molte altre persone – persone assai diverse da noi – votino lo stesso partito.

Questo potrebbe essere fin qui un post generico e generale che potrei avere scritto altre volte (e sicuramente l’ho scritto altre volte), ma oggi lo dedico a quella che mi sembra una strana pretesa: quella dei rappresentanti o militanti di partiti nati decidendo di uscire – legittimamente – da un grande e inclusivo partito come il Partito Democratico, per – legittima – insofferenza delle sue scelte prevalenti. Che va bene, significa che le cose che accomunano sono diventate così esigue e quelle che allontanano così inaccettabili che il discorso che ho fatto qui sopra salta: il PD non è stato più – per queste persone – il partito in cui convivere con altre idee dentro un progetto comune, ma è diventato proprio un progetto intollerabile e a cui opporsi, creando un progetto diverso.
Che-va-bene, ripeto.

Però allora adesso protestare e fare le vittime rispetto all’eventualità che quel partito non ritenga di coinvolgerti nel suo progetto mi pare un po’ buffo, per usare un aggettivo indulgente: un modo per fare le cose insieme c’era, ed era restarci dentro abituandosi alle diversità su molte cose e alle condivisioni su altre (e anche a venire sconfitti in determinate fasi). Se le prime hanno prevalso tanto da farti persino rompere un legame che avevi scelto e che esisteva, massimo rispetto: non lo intaccherei, quel rispetto, protestando ora di essere trascurato.

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