Mi ha interessato molto l’intervento di Fabio Bacà sul Post a proposito del rilievo della “vita reale” nelle tendenze e nel mercato editoriale italiani: per una mia antica curiosità sulla differenza di ruolo che il settore di libri “non fiction” e biografici ha nei paesi anglofoni, nelle loro librerie, nelle preferenze dei loro lettori, rispetto al paese nostro.
L’argomento di Bacà, in mia sbrigativa sintesi, è che ci sia una tendenza nelle élite culturali ed editoriali italiane a privilegiare la pubblicazione di più libri contenenti “vita vera”, tendenza che sarebbe però contraddetta dall’interesse dei lettori che continua – stando alle classifiche di vendita – a privilegiare invece la letteratura, l’invenzione, la fiction.
Le riflessioni che Bacà espone sono articolate e ponderate ma, lo dico di nuovo da dilettante osservatore, non mi hanno convinto in alcuni passaggi che secondo me limitano la solidità delle sue conclusioni e permettono di aggiungere un altro pensiero, sulla sopravvalutazione del ruolo che la letteratura si dà da sempre di strumento di comprensione della realtà. Ho detto sopravvalutazione, non infondatezza, ci mancherebbe.
Il primo passaggio di Bacà che non mi convince è un approccio che confonde in un calderone di categoria chiamata “vita reale” cose molto diverse. Non è una scelta né una responsabilità sua, naturalmente: la ricerca di categorie schematiche affligge di inciampi tutte le nostre vite, ma in particolare l’editoria libraria, dove spesso non si sa come collocare questo o quel libro a cavallo tra l’una e l’altra categoria o sfuggente all’una o all’altra. Per questo Bacà è costretto a usare in alcuni casi i canonici termini opposti di “narrativa” e “saggistica”, ma in altri deve parlare di “fiction” e “reale” o di “vita” e “letteratura”. Solo per fare un esempio più recente e famoso, non si sa bene dove mettere il libro di Paolo Giordano Tasmania, spostandosi tra queste diverse contrapposizioni. La conseguenza di queste difficoltà è che nel suo argomentare Bacà sovrappone il recente e straindagato aumento della narrativa memorialistica (auto-fiction, viene spesso chiamata) che introduce molta autobiografia in un romanzo, alla saggistica più tradizionale: il fenomeno editoriale di cui parla all’inizio è del primo tipo, ma il caso concreto delle classifiche a cui arriva alla fine parla di “saggi” e usa la categoria della saggistica. Ed è vero che c’è vita reale e non inventata nei libri di Carrère o in Spillover come in quello di Giordano o in quello di Ada D’Adamo, ma c’è anche una chiara distinzione tra i primi due – format di reportage giornalistici in cui l’autore è parte del racconto – dai secondi, che sono piuttosto romanzi con elementi personali, “tratti da una storia vera”.
Segnalo questa ineludibile varietà e impossibilità di definire categorie fisse per dubitare quindi dell’ipotesi che le élite editoriali e culturali italiane stiano spingendo gli autori verso la “saggistica” come la intendono le classifiche e gli scaffali, o verso un allontanamento dal romanzo: al massimo li stanno spingendo verso l’introduzione di propri elementi autobiografici nella narrativa e nel romanzo stesso, che è assai diverso. Parlare di sé e parlare del mondo sono due cose che possono essere sovrapposte a volte, ma che sono molto diverse tra loro per quanto “reali” entrambe: il libro di Veronica Raimo è decisamente del primo tipo e per niente del secondo: sempre con le già dette cautele per le categorie, non lo metterei nella categoria dei libri che raccontano “il reale” (nessun giudizio di qualità in questi esempi: anzi, sì, sto usando esempi di ottimi libri, ma diversi tra loro).
Insomma, tornando appunto alle mie curiosità iniziali, siamo ben lontani da far somigliare gli atrii delle librerie italiane a quelli inglesi e americani, in cui “fiction” e “non fiction” si contendono spazi ugualmente grandi e visibili. Le nostre – e tutto il sistema promozionale e culturale italiano – promuovono tuttora la “narrativa” in maniera sproporzionata (su che facciano bene o male, ci arrivo), per quante tendenze particolari e nuove poi possiamo vedere nella “narrativa”. Le nostre campagne sulla lettura si riferiscono esplicitamente ai libri (benché la lettura sia anche la vostra in questo momento, e quella che occupa buona parte del nostro tempo su internet) e implicitamente soprattutto alla narrativa e alle sue evocazioni suggestive.
E questa è appunto la seconda cosa che quindi non mi convince in quello che scrive Bacà: che ci sia un’inclinazione nel mondo editoriale a dedicarsi di più al “reale” che finora abbiamo considerato come argomento della “saggistica”, inteso come realtà collettiva e più estesa delle esperienze individuali. Non c’è: l’editoria e la cultura italiane continuano a privilegiare il racconto di “storie”, di “emozioni”, appunto, di vite singolari e nella gran parte dei casi “normali”: ovvero quello che – è vero – piace di più ai lettori italiani. Quello che sta succedendo, mi sembra, è che ci si è accorti che l’attrattiva di queste “storie” viene spesso rafforzata dalla consapevolezza da parte dei lettori (noialtri tutti, cioè) che ci siano elementi di verità: fenomeno normale e antico, è quello per cui se vi dico che un personaggio inventato e sommario è stato sfiorato da un pianoforte caduto dal decimo piano è meno avvincente che se vi dico che è successo a me stamattina. Tutti i più apprezzati documentari di questi anni di documentari sono fatti così, con la rottura della quarta parete: non solo la storia ma anche la storia del raccontare la storia. La forza di molta grande letteratura sta appunto nel rendere credibili – “veri” – i propri personaggi, e cosa c’è di più vero del vero? La sto semplificando, lo so, ma su questa tendenza dell’”autofiction” è già stato scritto molto negli scorsi anni. Salvo una minoranza di eccezioni, il più limitato settore della “saggistica” in Italia è invece occupato quasi sempre da prodotti similgiornalistici volatili e a tesi sull’attualità, figli di un inchiestismo sbrigativo e indignatore già presente sui giornali; oppure, all’opposto, da libri di divulgazione con approccio storico e accademico che – per quanto nobile – non è quasi mai rivolto – né attraente – ai profani o semplici curiosi del tema in questione. Con poche eccezioni, da parte di coraggiosi editori, che con difficoltà individuerete in libreria o negli inserti culturali.
E arrivo al terzo dubbio sull’argomentare di Bacà (la cui tesi potrei pure avere equivocato, possibilità che non bisogna mai escludere): è un dubbio banale, che probabilmente lui stesso ha valutato forse dandogli un valore più limitato. Ed è l’esibizione del dato di mercato a contraddire la bontà delle scelte editoriali: ovvero della considerazione da dare ai “gusti prevalenti del pubblico”. Bacà arriva a usare come argomento rivelatore della cecità degli editori il successo maggiore che hanno i film di storie incredibili rispetto ai documentari: ma mi pare che possiamo essere molto d’accordo sul fatto che le storie inventate abbiano un potenziale ineguagliabile per il grande pubblico, e per quello italiano in particolare. La questione è quanto vogliamo limitarci ad assecondarla, questa scelta naturale. Incollo dal suo testo per non rischiare appunto di travisare:
Non credo sia sensato pretendere dai gusti di critici e recensori una vasta rappresentatività dei gusti prevalenti del pubblico, ma sospetto che la direzione presa sia esattamente quella opposta: in pratica il ripiegamento su sé stessa della società letteraria ha creato le condizioni per ignorare quasi completamente le preferenze della stragrande maggioranza del pubblico. E mi chiedo quanto ciò sia produttivo, se è vero che una delle funzioni di critica, intellettuali e premi letterari è proprio quella di convincere quella stessa maggioranza che esistono alternative di pregio, ma altrettanto divertenti, ai libri che legge di solito.
“Ignorare le preferenze della stragrande maggioranza del pubblico” può essere una sventatezza commerciale, e siamo d’accordo. Ma se diamo anche qualche importanza alla funzione di “convincere quella stessa maggioranza che esistono alternative di pregio” bisogna che quelle preferenze del pubblico ogni tanto cominciamo a ignorarle di più, non di meno. E che chi lo fa – editori o autori – non sia criticato per questo. Oggi quelle preferenze sono invece enormemente accontentate, e per legittime ragioni economiche, appunto. La grandissima quota di “alternative di pregio” costituita appunto dalla “non fiction” divulgativa (giornalistica, scientifica, sociale, di spiegazione del “reale” e del mondo) è straordinariamente trascurata proprio per poco coraggio nell’ignorare le preferenze della stragrande maggioranza del pubblico: partecipando così a un circolo vizioso (i libri di non fiction non si pubblicano o promuovono, quindi le persone non li leggono, quindi non si pubblicano o promuovono, eccetera) che è appunto una notevole peculiarità del mercato italiano. Poca “non fiction”, e quella che c’è è poco letta. Sicuramente c’entrano radici culturali (siamo un paese avvinto dalle “storie”, dalle emozioni e dalle passioni, più che dalla descrizione e conoscenza della realtà e del mondo: siamo un paese cattolico, anche in questo) e differenze su cui non ci sono giudizi da dare. Il mio personale parere però è che una curiosità in più per la conoscenza della realtà, per “imparare”, se incentivata da chi può incentivarla, ci porterebbe del bene, anche sottraendo qualche impegno all’appassionata e sognante ed emozionata lettura di romanzi e “storie”: che, per quanto aiutino a “vedere da vicino” la realtà – come diciamo sempre della grande letteratura – ci lasciano lettori ignoranti di molta realtà “da lontano”. E se questo incentivo arriva introducendo “realtà” nella letteratura – anche controcorrente rispetto a quello che le persone comprano di più – è già qualcosa da considerare coraggioso piuttosto che perdente.
– La fine dei libri (2014)