Il “male necessario” è necessario?

Nel documentario su Yara Gambirasio che è su Netflix – discusso nei giorni scorsi un po’ per ragioni promozionali e un po’ per irritazione dei colpevolisti – c’è una cosa che mi sembra esemplare a proposito del lavoro dei giornalisti. Molti dei quali non ci fanno gran bella figura, nel documentario, soprattutto per i modi sgradevoli o proprio stupidi con cui assediano le persone coinvolte: tanto che uno di loro arriva a definire la categoria “un male necessario”.

Mi sono fermato a pensarci, a quel “necessario” (sul “male”, non c’è bisogno di vedere quelle scene per averne contezza quotidiana): e a come spesso il lavoro giornalistico sia giustificato in questo modo per certi suoi comportamenti pessimi, che in altri contesti sarebbero sanzionati ed evitati. Si dice spesso – ed è vero – che per informare le persone c’è bisogno di quei comportamenti, c’è bisogno di essere invadenti, di essere scortesi, di mettere il piede nella porta, di sgomitare, di sembrare persino stupidi, per ottenere informazioni da riferire al pubblico. Ed è vero che molte informazioni si ottengono solo così, e nelle redazioni viene persino apprezzato e premiato chi sia più capace di ottenerle con tanto cinismo e spietatezza. Ma la domanda che mi faccio, a volte, è: è necessario? Non il mezzo, ma il fine. È necessario, ottenere quelle notizie? È necessario darle al pubblico? È necessario che sappiamo ogni cosa? Ovvero, il “diritto di cronaca” è un dovere di cronaca?
“La gente deve sapere” proprio qualunque cosa?

E il documentario su Yara Gambirasio è in questo senso un buon esempio per farsi un’ulteriore domanda, estrema e puntuale, ma utile a fare dei pensieri sulla questione: immaginiamo che di tutta quella terribile storia non avessimo mai saputo niente fuori da Brembate, che i media nazionali non se ne fossero mai occupati. Immaginiamolo, e chiediamoci: il buon funzionamento delle nostre comunità e convivenze ne avrebbe risentito? Sarebbe stato un problema? Se il giornalismo deve svolgere il suo servizio pubblico (che significa, appunto, fare funzionare meglio le comunità), a cosa è servito in questo caso? Infilarsi in quella portiera, assediare penosamente i genitori di una bambina uccisa, i parenti di persone arrestate, a che cosa è servito? Era necessario per raccontare quelle sofferenze e quelle persone, va bene: ma era necessario raccontarle?

Non vi fermate sul caso Gambirasio, su cui magari mi sfugge qualche implicazione: ci sono altri mille e mille esempi che possono sostenere meglio la stessa cosa. Che è questa: di una grande parte delle informazioni che i media ci danno potremmo benissimo fare a meno come comunità, non aiutano a migliorare niente, non cambiano le cose (se non in peggio, a volte), e il “prezioso ruolo dell’informazione” è spesso un alibi per difendere quella che è solo una routine quotidiana di strafogamento di notizie a cui concorrono lettori e giornali, e che impone di infilare microfoni nelle portiere, fare domande cretine, disperare persone già disperate. Senza nessuna buona ragione, se non la comprensibile legittimazione di una professione, di un ruolo, di una curiosità umana, che con la funzione di servizio pubblico del giornalismo non ha niente a che fare. E che confonde i possibili significati di “interesse pubblico” e “interesse del pubblico”: il primo definisce quello che è utile e importante per una comunità di persone in quanto tale, il secondo si riferisce invece a quello che ci interessa come singoli individui, per banale e umana curiosità o intrattenimento. Tutte quelle telecamere e microfoni e telefonate a casa e domande moleste e sciocche stanno lì per il secondo, nella maggior parte dei casi: che ci sta, non bisogna criminalizzare gli umani desideri o le professioni che li soddisfano.
Ma non è necessario.

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