Il futuro dei media è fare le cose bene

Ieri ho detto delle cose sul giornalismo a un convegno di Telecom a Venezia dedicato al “futuro dei media”. Mi ero scritto un appuntone che poi ho seguito a pezzi e bocconi e ho dovuto molto sintetizzare. Lo metto online qui: è più chiaro ed esteso delle cose che ho detto un po’ precipitosamente, ma manca del conforto di alcune immagini, che sono online qui.

Io ho una sola idea chiara sul futuro dei media: ed è che nessuno ne abbia la minima idea. E credo che questo sia inevitabile, per due ragioni.
– La prima è che non abbiamo quasi mai idea di niente. Da qualche tempo le cose avvengono in modi imprevisti, soprattutto per quanto riguarda l’innovazione tecnologica, e se a volte alcune di queste sembrano svilupparsi in modi che qualcuno aveva preso in considerazione, questo avviene a fronte di altre dieci previsioni sbagliate per ognuna che somigli alla realtà. Immaginiamo di esserci trovati qui solo cinque anni fa, e chiediamoci se avremmo assistito a una serie di interventi che illustravano il prossimo boom di Twitter, di Facebook, delle applicazioni per iPhone. Non c’era nemmeno YouTube, né l’iPhone stesso, cinque anni fa. Per non parlare di Obama.
Forse avremmo potuto annunciare l’avvento di un telefono Apple, o dei libri elettronici. Ma del primo non avremmo saputo dire altro se non che sarebbe stato un iPod col telefono, e lo andavamo ripetendo dal 2002. Di certo non il computer tascabile che ha colonizzato il mondo. E dei libri elettronici – un’ovvietà – si parla da ancora prima e ci sono voluti dieci anni perché apparisse un modello che sembra avere qualche iniziale stabilità sul mercato. Qualcuno immaginava l’avrebbe fatto Amazon? E domani esce il lettore di Barnes & Noble: cosa saranno diventati tra due, tre anni? E non parlo di tutte le “next big things” di cui abbiamo annunciato il rivoluzionario successo, in questi stessi anni: da Second Life a Knol di Google, a Cuil, alla realtà virtuale così come veniva disegnata, alla fine della telefonia, cose anche interessanti ma che di certo non sono diventate “il futuro di” niente.
– La seconda ragione di cautela nell’azzardare previsioni è che la rivoluzione che sta travolgendo da alcuni anni il mondo dei media giornalistici ha coinvolto variabili davvero impensabili e impensate: quello che le nuove tecnologie hanno sovvertito nel mondo della fruizione della musica e della sua industria era in fondo abbastanza prevedibile fino dai primi passi di Napster, se non prima, per fare un esempio. Anche quello che sta avvenendo con i libri elettronici segue l’idea che ne avevamo da quando cominciammo a parlarne, più di dieci anni fa. Rivoluzioni, ma su orizzonti chiari da tempo.
Per quello che riguarda i giornali, gli scenari mostrano invece una caotica nuvola di geniali fantasie, panico da catastrofe economica, terrore del domani e scoppiettio continuo di nuove forme di diffusione delle informazioni. Trovarne il bandolo è divenuta questione da miliardi di dollari, ma l’approccio della ricerca del bandolo potrebbe non essere il più lungimirante: metti che non ci sia un bandolo?
Con questo non voglio togliere ogni senso a questa discussione – le discussioni sono proficue e fertili anche se non si concludono in sintesi e soluzioni: sono percorsi, e non dovrebbero servire a capire cosa sarà il futuro, ma dovrebbero servire a costruirlo, il futuro: il futuro è quello che ne facciamo noi, mica accade per caso – ma voglio invece indicare un’auspicabile possibilità per il futuro dei media: ovvero quella di smettere di pretendere di individuare ogni giorno un diverso futuro dei media. I media saranno quel che sapremo farne, noi o qualcun altro più bravo di noi.

Quindi per capire cosa saranno i media del futuro, vediamo di capire cosa sono i media del presente, e provo a spiegare perché ho chiamato questo mio intervento “il darwinismo applicato ai media”. Inciso: sì, dico “midia”, nella pronuncia inglese. Un po’ per abitudine e perché penso che le pignolerie linguistiche siano una delle grandi pigrizie che sostituiamo a impegni più ambiziosi, e un po’ perché la natura dei media di cui parliamo ha molto più a che fare con la cultura americana che con quella degli antichi romani.
Mi interessa fare un discorso che abbia a che fare peculiarmente con l’Italia, perché penso che il nostro paese meriti maggiori chances di partecipazione all’innovazione tecnologica e culturale di quelle in cui lo hanno rintanato le mediocrità umane che ne hanno governato politiche e cultura negli ultimi decenni. E credo che ci siano gigantesche opportunità di miglioramento in questo senso.
La qualità dell’informazione e del giornalismo in Italia è a livelli bassissimi. Ma non voglio dirlo io, che ho un atteggiamento critico da così tanto tempo che a volte mi sento io stesso una specie di troll dei mezzi di comunicazione tradizionali, che pure frequento assiduamente scrivendo per molti giornali di carta (quelli per cui scrivo io a me sembrano i migliori, ma capirete che sono poco obiettivo).
Userò invece le parole impiegate dagli stessi giornali e tg italiani per illustrare le potenziali e reali minacce per l’informazione in arrivo dalla rete e dalle nuove tecnologie. È interessante vedere come si sia ultimamente ribaltato il rapporto tra i grandi organi di informazione e gli utenti della rete e i blogger che ne sono stati – e ne sono ancora – oltre che fruitori ed esaltatori, grandi critici spesso oltre il limite del capriccio: pulci attaccate alla schiena di cui i giornali avrebbero potuto liberarsi con una grattata di proboscide, o con una minima dose di fact-checking e accuratezza. Invece insicurezze, code di paglia, piccole vanità e permalosità hanno creato una sindrome da assedio nelle redazioni, e oggi non passa giorno che non si leggano nei maggiori quotidiani accuse risentite o frecciatine dirette al dilettantismo della rete, all’inaffidabilità dei blog, alle turpitudini di internet. L’altroieri Massimo Gaggi, bravissimo e competente inviato del Corriere ha scritto un editoriale sulle nuove tecnologie applicate all’informazione, preoccupato di come potremo “continuare a discutere serenamente di politica quando si diffonderà l’uso di strumenti di questo tipo”: sarebbe stata un’obiezione interessante, se a qualcuno risultasse che in questo paese a oggi si discuta serenamente di politica, nei media tradizionali. E vengo al punto.

I media tradizionali accusano la rete di devastare la qualità dell’informazione in quattro modi diversi.
– Uno è la diffusione di notizie infondate, inaffidabili, false, non verificate.
– Il secondo è il saccheggio del lavoro prodotto da altri, per ottenerne traffico e guadagni senza alcun merito.
– Il terzo è l’eccesso di autoreferenzialità e ombelichismo dei contenuti in rete.
– Il quarto è la riduzione di ogni dibattito e confronto a polemiche aggressive e violente.
E non c’è dubbio che ognuna di queste accuse abbia una sua parte di fondamento. Ma la cosa che dobbiamo capire è se siano le nuove tecnologie a introdurre queste deviazioni nel sistema dell’informazione, o se esse non esistano già solidamente insediate nei media tradizionali. Rivediamole una alla volta, queste accuse formulate a internet, in relazione ai media tradizionali.

Uno: la diffusione di notizie infondate, inaffidabili, false, non verificate.
Quando alla Gazzetta dello Sport mi proposero una rubrica settimanale di notizie uscite sui giornali che poi si sarebbero rivelate false (o che lo erano già palesemente) fui preoccupato di trovare materiale con abbastanza frequenza. Oggi, due anni e mezzo dopo, quella rubrica potrebbe avere frequenza doppia, e costituisce un repertorio indiscutibile di prove a carico dell’inaffidabilità dell’informazione italiana. Ci sono sostanzialmente tre tipi di falsità giornalistiche: quelle per cialtroneria che non sa e non controlla, quelle per adesione a un comunicato stampa o sondaggio, quelle per tifoseria politica. Vi mostro un po’ di esempi.
Due: il saccheggio del lavoro prodotto da altri, per ottenerne traffico e guadagni senza alcun merito.
Come sapete, ormai gran parte dei contenuti dei nostri quotidiani (non dico poi I telegiornali) non sono prodotti all’interno delle redazioni. Se trascuriamo le notizie di agenzia e gli articoli tradotti – che vengono ricompensati – e i comunicati stampa risistemati, una grande quantità di articoli (quasi tutti quelli degli inviati all’estero) altro non sono se non il riassunto o la copia di cose lette sui giornali stranieri o su internet.
Tre: l’eccesso di autoreferenzialità e ombelichismo dei contenuti dibattuti in rete.
C’è bisogno di sottolineare quanta parte delle loro pagine e palinsesti, giornali e tv dedichino a parlare di ciò che esce su giornali e tivù? E di quanto I giornali si occupino delle polemiche politiche e le polemiche politiche nascano dai giornali o per andare sui giornali? Ci siamo abituati a tutto, ma provate a guardarlo in modo distaccato, una volta.
Quattro: la riduzione di ogni confronto e dibattito a polemiche aggressive e violente.
E non mi pare che esista un periodo migliore (o peggiore) di questo, per mostrare quanto questa attitudine trovi il suo regno negli andamenti dei media tradizionali.

Qualche tempo fa Barack Obama ha illustrato i suoi timori sulla scomparsa del giornalismo di qualità e la paura che in rete prevalga un’informazione “all opinions, with no serious fact-checking, no serious attempts to put stories in context”. La paura è fondata e va affrontata, ma la soluzione non è di certo il giornalismo dei media tradizionali com’è oggi in Italia: “all opinions, with no serious fact-checking, no serious attempts to put stories in context”.

E quindi l’informazione del futuro non andrà tanto dove la portano le nuove tecnologie, ma dove la portiamo noi umani: e al momento non la stiamo portando in un bel posto, tecnologie o no. Il futuro dell’informazione, come ha scritto oggi sullo Huffington Post Craig Newmark di Craiglist, dev’essere fatto di credibilità e fiducia.
Non voglio chiudere questo intervento assolvendo chi ha fatto o non ha fatto informazione online in Italia in questi anni. Uno strumento per l’arricchimento e la modernizzazione di questo quadro avrebbe potuto essere la rete, e i suoi nuovi modi di fare giornalismo e informazione. Ma in Italia, malgrado una diffusione di iniziative in rete abbastanza precoce, la qualità e la forza di queste iniziative sono rimaste piuttosto primitive. I blog, le loro variazioni, i giornali online, non hanno mai prodotto contenuti davvero notevoli e competitivi, e non sono mai entrati nel dibattito giornalistico e politico, salvo occasionali e deboli eccezioni.
La colpa è un po’ di tutti. È dei media tradizionali che hanno un generale problema di modernità, e un particolare limite di superficialità e ignoranza nei confronti della rete: i contenuti che arrivano dal web sono tuttora trattati da giornali e tv come irrilevanti, sono capiti poco, e usati solo nell’ambito dello strano-ma-vero, o quando somigliano alle curiosità abituali dei media tradizionali.
Ma è colpa anche dei blogger e dei produttori di contenuti in rete, che non hanno mai fatto un salto di qualità nell’informazione e nel commento giornalistico, mantenendosi tra i racconti personali, le arguzie di vita quotidiana e le opinioni dilettantesche.
Ed è anche colpa di quel settore di professionisti – giornalisti, opinionisti, accademici, esperti in generale – che negli Stati Uniti hanno investito nei blog e nella rete per tempo, mettendosi in concorrenza con le altre fonti di informazione, e che in Italia non lo hanno fatto, per pigrizia, ignoranza, attaccamento al presunto prestigio della carta stampata e ai suoi ritorni economici.
Infine, è colpa del mercato e dei suoi operatori: il primo non ha offerto grandi chances competitive alle iniziative in rete, i secondi non hanno investito sufficienti impegni o pensieri nelle chances esistenti.

Come hanno osservato in molti, lo scenario più plausibile rispetto all’informazione dei prossimi anni – parlo di pochissimi anni prevedibili: solo nel 2025 smetteremo di morire, secondo alcuni, e questo cambierà parecchie cose – è quello di un affollamento di fonti e canali di informazione di generi molto diversi. Un simile disordine è oggi spaesante per chi è abituato alle semplificazioni in categorie – giornali, radio, tv; fatti separati dalle opinioni; eccetera – ma ci stiamo già abituando: il disordine e l’accavallamento di contenuti non sono negativi di per sé. In questo disordine, la selezione naturale eliminerà molti produttori di informazione consolidati: di certo perderemo qualcosa – ogni cambiamento implica una perdita: ma questo avviene già da sempre, e ognuno ha I suoi esempi di prodotti editoriali che non esistono più e gli mancano – e altrettanto certamente molto di quel che perderemo saranno duplicati, superfluo, cose non indispensabili al nostro progresso culturale e sociale.
Ma io credo che i più forti si adatteranno e sopravviveranno, perché non c’è dubbio che il buon giornalismo è un’arte straordinaria e di cui c’è tuttora richiesta, se esso si dispone a collaborare per cambiare il mondo e non solo ad esserne cambiato. Le tecnologie, dai readers al mobile fino all’Apple Tablet di cui ora si parla insistentemente anche per quel che significherà nella distribuzione di news, modificheranno senz’altro – lo hanno già fatto – il nostro rapporto con le informazioni: ma offrono anche grandi opportunità per reinvestire in grandi qualità giornalistiche. Ciò che può salvare il giornalismo, qualunque forma esso assuma, e che manca oggi a molto di quello che viene prodotto in rete, è il ricorso a una cosa che si chiama retoricamente e banalmente etica. L’etica del fare le cose bene, l’etica della correttezza, l’etica della qualità, l’etica della verità. La vecchia idea, come ha scritto Mark Bowden sull’Atlantic Monthly, che quello che stai facendo è scrivere quello che pensi tu, e non quello che pensa qualcun altro, sia il tuo caporedattore, il tuo editore, lo stilista o il produttore di videogiochi che ti manda gli omaggi, o la tua curva politica:
“Journalism, done right, is enormously powerful precisely because it does not seek power. It seeks truth”

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