Spettri, incubi e compagnia

Approfitto di questo titolo del Corriere della Sera di oggi per ammannirvi un capitolo di Notizie che non lo erano piuttosto aderente, diciamo.
(intanto, l’incendio di cui si parla di più nell’articolo del Corriere è stato attribuito con maggiore probabilità a un fulmine, come già annunciava l’articolo stesso, insieme alla spiegazione che su un’altra chiesa è caduto un albero).

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Il 21 ottobre 2012, una domenica, una ragazza nera di vent’anni raccontò alla polizia di essere stata aggredita da alcune persone che le avevano dato fuoco e avevano scritto «KKK» sulla sua macchina, in un parco a Winnsboro in Louisiana. La notizia ebbe spazio nella stampa locale e delle brevi sui siti di news nazionali, in posizioni molto marginali: probabilmente, come avviene di solito con i media americani, in attesa di maggiori informazioni. Al Post, dove teniamo d’occhio piuttosto assiduamente i siti americani, confesso che non ci accorgemmo della storia.

Passarono due giorni, e martedì il «Corriere della Sera» annunciò con comprensibile orgoglio, sia con editoriali sul giornale di carta sia sul sito e sui social network, di avere fatto un accordo col sito Factchecking. it, per coinvolgere i lettori nella verifica sulle notizie pubblicate. Factchecking.it era una benintenzionata iniziativa di verifica delle notizie con la partecipazione degli utenti nata la primavera precedente. Che il «Corriere» adottasse delle pratiche in questo senso, in un contesto come quello italiano in cui verifiche e controlli sono molto esigui – non ci sarebbe questo libro, se fossero più frequenti –, sembrò un’ottima cosa.

Alcune ore dopo, martedì pomeriggio, improvvisamente il sito del «Corriere della Sera» mise addirittura in apertura – la prima notizia in vista sulla homepage – a caratteri ben grossi (direi cubitali), questo titolo: «Danno fuoco a ragazza nera: gravissima. Torna l’incubo Ku Klux Klan negli Usa».

Se ricordate la riflessione* sui miti americani più spaventosi che formano la cultura delle redazioni italiane (l’assassinio del presidente, la guerra del Vietnam), mi rimprovererete forse ora di avere dimenticato il Ku Klux Klan: e avete ragione. L’incubo del Ku Klux Klan.

Ma a parte quest’enfasi allarmistica purtroppo familiare (sui quotidiani italiani è tutto incubo, è tutto allarme, è tutto shock, è tutto bufera, è tutto panico, è tutto «ira di», eccetera), c’era qualcosa di strano. Perché, due giorni dopo il fatto, tanto spazio a una notizia che in quel momento non compariva su nessuna homepage di news americana, e non ci era mai comparsa? Enfasi ancora meno spiegabile se cliccavate sul titolo e finivate in un articolo di sì e no dieci righe (che sarebbe stato un po’ allungato in serata): la lunghezza di una notizia normalmente lateralissima, o appena arrivata e ancora molto sommaria.

Poco dopo, sugli altri siti dei giornali e delle agenzie italiani, si fa spazio la stessa notizia con simili titoli («bruciata viva»), persino con commenti sul significato dell’accaduto. In alcuni casi con l’informazione che la ragazza «indossava una maglietta di Obama», dettaglio che viene rapidamente smentito e cancellato, ma non da tutti. Sul «Fatto», per esempio, è ancora lì, persino nel titolo.

Apro una parentesi: avrete ormai notato il grande numero di esempi fatti di articoli che dicono cose false che diversi siti di news mantengono online, accessibili e raggiungibili facilmente, e che chiunque legga assumerà come veri e fondati. Se io finisco oggi – di link in link, o attraverso una ricerca – su quella pagina del «Fatto», assumerò che una ragazza nera sia stata arsa viva dal Ku Klux Klan perché era nera e aveva una maglietta di Obama. Poi, di link in link, finirò su un diverso articolo anch’esso già ampiamente smentito e su dei fatti che risultano falsi, e poi su un altro, e così via: e così ogni giorno si forma la nostra idea del mondo e della realtà. Non solo con notizie false che poi vengono fatte sparire e nessuno ci avvisa che erano false, ma persino con notizie false che vengono confermate vere ogni giorno. Chiusa parentesi.

Torniamo a quell’apertura del «Corriere» e di altri giornali: tanta attenzione e un simile ritardo si spiegavano probabilmente – di solito è così – con una sola fonte italiana che aveva rilanciato la notizia con nuova enfasi, e a un conformismo delle redazioni che le erano andate dietro a valanga senza farsi domande sulla sua dimensione, sull’attenzione che avesse avuto negli Stati Uniti, sulla sua attendibilità. Anzi ognuno aggiungendo una quota di sensazionalismo in più. Poi metteteci appunto la seduzione cinematografica del Ku Klux Klan e la forza dell’immaginario anni Sessanta per i giornalisti italiani di quella generazione, come dicevamo.

E così, martedì sera, ne parlarono anche i telegiornali, con l’ulteriore allarme drammatizzante proprio dei telegiornali.

A completamento del percorso, mercoledì – tre giorni dopo il fatto – la storia uscì su tutti quotidiani di carta: «Repubblica», «il Fatto», «Secolo XIX» e «Il Mattino» la misero persino in prima pagina, tentati probabilmente dalla foto della ragazza o dei cappucci del Klan. Il «Corriere» le diede tutta la pagina sei, con un’intervista alla scrittrice Toni Morrison per parlarne. Ma sotto il titolo a quattro colonne «Ragazza nera bruciata viva. Accuse al Ku Klux Klan», nel sommario, probabilmente aggiunto all’ultimo momento, si leggeva anche: «I dubbi della polizia, che segue anche altre piste». E poi, all’improvviso, in fondo all’articolo di Guido Olimpio, per chi lo avesse letto e fosse arrivato in fondo:

Nel pomeriggio di ieri lo sceriffo Cobb convoca una conferenza stampa e sostiene che Sharmeka si sarebbe inventata la storia. Le analisi della Scientifica hanno trovato soltanto le impronte della ragazza, inoltre i controlli non avrebbero trovato riscontri alle sue affermazioni. La notizia si diffonde rapidamente. Sulla rete Internet esplodono i commenti. C’è chi non vuole credere alla versione della polizia, c’è invece chi prega. Dalla famiglia di Sharmeka, distrutta dagli eventi, un messaggio di scuse.

Non era vero. Niente storia. Niente Ku Klux Klan. Ma ai lettori italiani lo dissero solo quelle ultime righe del «Corriere della Sera».

 

 *riferimento a questo passaggio precedente del libro:

La «passione» (questo è) dei quotidiani italiani per qualunque più fragile ipotesi che venga ucciso il presidente degli Stati Uniti ha, io credo, un’interpretazione accessoria e peculiare che si somma a quelle consuete che spiegano la pubblicazione di notizie false (sensazionalismo, pigrizia, crisi di vendite, inettitudine). Nelle maggiori redazioni italiane prevale per ragioni anagrafiche un’immagine dell’America legata alla sua storia degli anni Sessanta e Settanta, e alla sua perpetuazione da parte di cinema e letteratura. L’America che si conosce non è tanto quella della saggistica e degli studi contemporanei o degli storici, ma quella dei film e delle esperienze personali (con eccezioni, ovviamente, da parte di alcuni esperti e preparati giornalisti): e i suoi elementi principali sono la guerra in Vietnam e l’assassinio di Kennedy (oltre che tutta la parte pop della presidenza Kennedy: non credo che le storie che riguardano Jacqueline Kennedy o la relazione tra Marilyn Monroe e Kennedy abbiano da nessuna parte lo spazio che tuttora ottengono su alcuni quotidiani italiani). L’America vissuta qui ha sempre addosso «l’incubo del Vietnam» o «lo spettro dell’assassinio di Kennedy», e così ci viene pigramente raccontata. E questo genera i riflessi eccitati nei confronti di qualunque replica di ciò che è conosciuto: l’uccisione del presidente.

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