Toglietemi pure lo spettacoloso Bolt sui cento e sui duecento, e toglietemi la prossima Isola dei famosi con un cast raccapricciante (e quindi perfetto). La verità è che niente mi ha più tenuto incollato al televisore in questi mesi di quelle onde che traboccavano a spruzzi oltre l’argine del Canale Industriale di New Orleans, il giorno che Gustav ha minacciato di fare il disastro.
Mi sono chiesto perché. Ho cercato di capire se era solo il banalissimo cliché della vita vera, delle cose vere, che avvengono in diretta, e della loro naturale straordinarietà. Non ho voluto raccontarmi balle – lo hanno fatto molti di voi, lo so – e ipocrisie: malgrado sia stato a New Orleans quanto basta per innamorarmene e per innamorarmi della sua fragilità (una settimana), c’è qualcosa di irrazionale dentro di noi che sogna l’onda grande e che sfugge alla nostra sincera paura e compassione per chi fugge. L’attesa per l’incidente alla curva del Gran Premio è una cosa molto più animalescamente incontrollabile che meschina e cattiva.
Ma non era quello: c’era una bellezza estetica, un’emozione plastica in quelle onde, nelle palme piegate dal vento. Una bellezza vera, viva, e indipendente dalle sue implicazioni. E che sia andata a finire “bene”, esautora i nostri sensi di colpa (molto si è scritto della inimitabile forza visiva dell’ingresso degli aerei nelle torri gemelle, quella dannata volta: ancora adesso, quelle immagini potrebbero riempire una trasmissione quotidiana – anzi, è una proposta).
Il cielo e la terra, in tv, sono fantastici: che il primo mi perdoni.
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