Le circostanze mi fanno tornare sul tema di cui avevo scritto venerdì, intorno alla rubrica di Umberto Eco. In questo caso lo stesso fenomeno psicologico è in atto in uno degli editoriali nella pagina dei commenti del Corriere della Sera di sabato, dedicato alle reazioni in rete alla notizia delle gravi condizioni di salute di Lamberto Sposini.
Lo ha scritto Massimo Sideri ed è intitolato “Sposini e lo sciacallaggio su Facebook”: riprende quello che racconta un altro articolo alcune pagine prima. Lo incollo qui sotto per mostrarne le numerose e diverse incongruenze con la realtà e i tic caratteristici dell’atteggiamento di cui parlavo nei confronti della rete, e il cliché di internet propalato (e si ritiene immaginato) da diversi suoi osservatori in difficoltà di comprensione delle cose.
Diciamoci la verità: a sdegnarsi dello sciacallaggio su Facebook e Wikipedia ai danni del collega della Rai, Lamberto Sposini— ricoverato ieri in gravi condizioni poco prima di andare in onda con La vita in diretta— deve essere prima di tutto il «popolo della Rete» , coloro che sentono il web come e forse più di un’appartenenza politica o calcistica.
Questo è un diffusissimo e pigro “straw man argument”: disegna o esalta una realtà estremizzata per poterla facilmente attaccare. Il «popolo della rete» come branco di tifosi esaltati e ciechi non esiste. Intanto per banali ragioni sociologiche e statistiche: la rete è ormai un luogo occupato dalla gran parte del «popolo del mondo», compreso probabilmente Sideri. Continuare a distinguere la rete da un preteso “mondo reale” non ha senso: è come parlare di un «popolo dei giornali» per distinguere i lettori dei giornali dagli altri, o un «popolo della tv», eccetera. E ancora più peculiarmente “normale” è poi il «popolo di Facebook», a cui l’editoriale si riferisce.
Ma non esiste neanche in maniera rilevante un presunto partito dei difensori del “liberi tutti” su internet, una specie di Casa delle Libertà sul web che propugni il “facciamo quello che ci pare”. Esistono esaltati e fessi che dicono cretinate di questo e altri generi, ma non in una misura diversa da quelli che le dicono nei bar o nelle lettere ai giornali. Identificare i frequentatori e appassionati delle cose di internet con una manica di teppisti o di teorici dell’anarchia non è in nessun modo diverso dal dare dei “comunisti” all’opposizione: è lo stesso sbrigativo trucco dialettico che cerca il consenso facile.
Anzi, e questa è una cosa che sarebbe il caso che questi “osservatori da lontano” della rete capissero e seguissero, c’è stato e prosegue – è persino vecchio – un ricco dibattito critico su una serie di eccessi e abusi delle libertà della rete condotto esattamente – e con molta maggior competenza – dal presunto «popolo della rete», ovvero da blogger, studiosi, autori che la rete la seguono e la discutono da molti anni e con ampio seguito. Se si vuole sapere cosa succede in rete, che evoluzioni ha il dibattito relativo, sarebbe meglio affidarsi a chi la frequenta e conosce: altrimenti è come se io scrivessi un editoriale su quanto sia noioso il dibattito sul cibo biologico, che mi ha appunto sempre annoiato abbastanza da restarne ignorante.
Pochi minuti dopo la notizia del ricovero Wikipedia, l’enciclopedia online del contributo collettivo, dava già Sposini per morto. La pagina è stata prontamente bloccata dai gestori del sito. Si potrebbe dibattere ampiamente sui tempi di Internet e i tempi della realtà con il primo che supera la seconda. Ma non è il caso. L’unica cosa da fare è denunciare un atteggiamento che sarebbe sbagliato giudicare solo superficiale o leggero come si trattasse nient’altro che di un videogame, perché il dolore creato dal nostro alter ego digitale è reale quanto quello causato di persona. Non è la prima volta che in una macabra ansia da aggiornamento in real time la scomparsa di personaggi importanti finisca subito su Wikipedia: la sera della morte dell’ex ministro e padre dell’euro, Tommaso Padoa-Schioppa, l’enciclopedia aveva anticipato le agenzie di stampa. Ma in quel caso era vero.
L’obiezione più immediata è piccola, ma vale la pena farla: quale sciacallaggio ci sia in una pagina di Wikipedia che dia per morto uno che è vivo, non si capisce. È di certo un errore, è di certo un’informazione sbagliata, è di certo una sciocchezza precipitosa: ma “morto” non è ancora un insulto. Si corregge, fine.
Ma il punto non è questo, e rimuoviamo tranquillamente questo dettaglio: il punto è che un’accusa di “macabra ansia da aggiornamento” rivolta dalle colonne di un quotidiano italiano nel 2011 non può avere nessuna credibilità e anzi deve interrogarsi sulle proprie responsabilità nell’aver contagiato il mondo con questa ansia. I mostri di scorrettezza creati dal giornalismo italiano in cerca di titoli e notizie prima ancora di averle verificate riempiono libri. La più spettacolare dimostrazione di “bue che dà del cornuto all’asino” sta poche pagine prima, proprio dove si parla di Sposini. Una pagina è occupata da due articoli: quello più in basso accusa internet che “dà per morto” Sposini; quello più in alto però lo ha già dato per morto, con un coccodrillo impaziente e prematuro. Ma è solo un esempio e non sono io un amante della lezione “predica bene e razzola male”: il difetto non è l’incoerenza, ma l’irresponsabilità; è insegnare con assiduità e forza per anni che ogni barlume di notizia non verificata deve essere portata alle estreme conseguenze in termini di copertura giornalistica, si tratti di fughe di dittatori, di “fosse comuni”, di avvisi di garanzia, di dimissioni di direttori generali della Rai, di attentati al presidente USA. Se tu dici ai tuoi lettori ogni giorno che una notizia possibile è una notizia certa, poi che ti aspetti che imparino?
(e non parliamo dell’inconsistente esempio di Padoa Schioppa, in cui nessuna “ansia di aggiornamento” fu all’opera: la notizia era appunto vera, e quindi fu data, punto)
Mentre ciò che colpisce per Sposini non è l’errore quanto il possibile dolo. C’è infatti il precedente della pagina «Addio Lamberto Sposini» postata su Facebook già da lunedì scorso, tanto che uno degli ultimi commenti ieri era: «Gliel’avete tirata» . Scorrere la lunga lista dei post sulla pagina non è impresa facile per una persona sana: si passa dalle bestemmie a chi, rispondendo a coloro che fanno notare che Sposini è vivo, aggiunge: «Dai che manca poco» . Il fondo lo ha toccato chi ha scritto: «È stato un tragico errore, in realtà doveva lasciarci quella vecchia ciabatta della Venier» . La maggioranza si è ribellata anche violentemente contro i «Trolls» (anonimi) all’origine della pagina. «Questo gruppo è un raduno di pervertiti» hanno denunciato in molti. Forse, anche se con un linguaggio forte, ha colto l’essenza del problema chi ha postato ai Trolls: «Fatti una vita invece di sprecare il tuo tempo con ’ sti link idioti» . La tolleranza zero parta dalla Rete stessa.
E insomma, Sideri è stato su una pagina di deficienti su Facebook e pretende di giudicarne l’intera rete: che è come analizzare il giornalismo a partire da un editoriale di Sallusti. Ma non solo: in quella pagina di deficienti trova qualcuno (“la maggioranza”, peraltro) che si è volenterosamente preso la briga di dare dei deficienti ai deficienti. Eppure quel qualcuno – la maggioranza – non è evidentemente «popolo della rete», e anzi si merita anche un imperativo finale superfluo rispetto a una iniziativa che è stata già presa.
Con metodo scientifico, enumerate le prove a sostegno della mia tesi, la ribadisco. C’è un ceto intellettual-giornalistico (di solito con tratti generazionali, ma non credo sia il caso di Sideri che immagino più giovane) che ha con la rete un duplice rapporto di estraneità e timore: la frequenta ai bordi, da estraneo, e crede di esserne al centro. Scambia pagine di Facebook per manifestazioni dell’avanguardia tecnologica, commenta quel che vede senza alzare troppo lo sguardo. E al tempo stesso, quel che vede gli fa paura, come ogni analisi superficiale basata sulle apparenze più invadenti: come giudicare il fenomeno dell’immigrazione dopo essere stati seccati da un lavavetri al semaforo, o la ricerca scientifica dopo aver visto un film sui bambini hitleriani. Con il di più del corporativismo professionale che si sente offeso dalle insistenti concorrenze e critiche che gli arrivano dalla rete (come questa, purtroppo).
Sommate tutto questo alla nota inclinazione al terrorismo e alla demagogia di molto giornalismo nazionale, e i prodotti sono le analisi di Eco e di Sideri. Del primo ho la stima che hanno quasi tutti, il secondo non lo conosco e lo immagino non l’ultimo arrivato, se scrive editoriali sul Corriere. Sono però esempi di quello che in Italia non è stato fatto da parte degli intellettuali e dei giornalisti e che li ha lasciati – salvo rare eccezioni – fuori dallo sviluppo di internet in Italia, negli anni in cui in America i loro colleghi vi traslocavano in massa giornalismo e cultura contemporanei.
La cosa frustrante, personalmente, è che quell’articolo era rivolto ad un vasto pubblico che la pensava esattamente allo stesso modo, uno di quei tipici articoletti reazionari scritti al solo scopo di titillare lo sdegno di una massa di persone troppo grande anche per l’Italia, lasciandoli gradevolmente compiaciuti a mormorare tra loro un illogico “O tempora, o mores” a fine lettura. Trovo difficile frenare moti di disprezzo nei confronti di questo “compartimento stagno” di italiani che rende diviso a metà il Paese e crea un’incomunicabilità apparentemente irrisolvibile. E’ angosciante, se ci si pensa. E’ come vivere un conflitto generazionale in ogni cosa, in questo Paese, è faticoso per tutti perché nessuno farà cambiare idea a nessun altro, ma al contempo è difficile tollerare argomenti così essenzialmente difettosi ed irrazionali. E’ difficile tollerare l’irrazionalità presa a sistema (e non so fino a che punto in buona fede), l’impossibilità di comunicare e di avere dialetticamente la meglio, se si ha ragione.
E se non smuoviamo una certa parte di questa nostra Italia che la pensa ancora in un certo modo (e che è ancora quella che conta, e che conta più di noi), saremo costretti a subire la viscosità dei ritmi naturali del cambiamento senza poterlo accelerare in alcun modo.
Tra l’altro, fa bene osservare che Berlusconi non è l’unico vessillo per/contro cui schierarsi, e il caso di Eco dimostra come l’irragionevolezza alberghi anche dalla parte di quelli che pigramente ci piacerebbe definire “i buoni”.
C’è una cosa, tra le tante che non capisco, che riguarda la mia illusione di frequentare internet per il semplice fatto di avere neuroni che funzionano senza binari. Credevo di poter criticare liberamente persone come Umberto Eco oppure Asor Rosa. La mia critica si rivolgeva al bisogno feroce di questi signori di esporsi e mantenersi sulla cresta dell’onda mediatica. Non un semplice surfismo ma un bisogno più simile a quello di un tossicodipendente. Far parlare di sé come necessità di vedersi narcisisticamente rispecchiati nelle pagine di giornali di tutte le tendenze. Sentirsi lodati dai vari giornalisti che fanno da tappetino alle loro eminenze, per lucrare anch’essi un poco di notorietà, oppure biasimati da chi ovviamente è in disaccordo con le loro rodomontate. Bene o male quindi purché se ne parli.
Ebbene, non capisco se essere cittadini qualunque in Italia, per quei signori, significhi essere esautorati dall’avere la possibilità di pensare con il proprio cervello e non con il loro.
Ma che intellettuali abbiamo in Italia?
I troll sono italiani che rivelano la vera faccia dell’Italia: ignoranti, aggressivi, stupidi. Chi denuncia la rete in realtà si sta lamentando del fatto che gente indegna abbia la possibilità di parlare senza che vi sia alcun tipo di filtro o deterrente. Quello che non si capisce è se in Italia siano di più o di meno, i deficienti, rispetto a paesi per altri versi equiparabili, o se è come nella realtà con tutti i suoi cliché sugli italiani: che le nostre strade sono rotte e sporche, che siamo guappi e lazzaroni, che rubiamo e pensiamo solo a scopare le mogli degli altri, che siamo fascisti rossi e neri, che siamo mafiosi e truffatori.
Se non si fa qualcosa per impedire che i peggiori colonizzino la rete finiremo per arroccarci e perdere qualsiasi possibilità di dimostrare che l’esercizio dell’autorità per fare rispettare regole condivise non solo deve essere possibile ma è auspicabile. Invece c’è sempre chi ridimensiona, minimizza, pretende la libertà senza responsabilità tipica degli adolescenti e degli imbecilli, e strizzano l’occhio ai troll quando combattono per la propria parte politica o religiosa o ha i suoi stessi gusti. Lasciamo che i peggiori agiscano così come lasciamo che i peggiori colonizzino l’economia tramite la delinquenza organizzata, la politica tramite partiti-club, finiremo per lasciare spazio come facciamo anche nella vita reale ai prepotenti, agli urlatori, ai minacciosi, ai violenti, agli squilibrati, al branco.
Ma forse non abbiamo scelta. Forse i troll, i peggiori, gli imbecilli sono la maggioranza ed è giusto che comandino loro e facciano tutto quelloche gli pare e paice in rete e fuori dalla rete. Se è così la scelta più ragionevole è lasciare il territorio materiale e culturale nelle mani dei troll, oppure sfruttarli per ottenerne il voto o i soldi o l’aiuto, o ancora far finta di nulla e tapparsi occhi, bocca e orecchie. L’impressione che si fa l’editorialista sulla rete è normalissima, se ci pensi, basata sull’osservazione, quando apri la rete non ci trovi tutta quell’intelligenza che ti aspetteresti, anzi, man mano che passano gli anni l’intelligenza fa come nella realtà, devi cercarla sperando non sia scappata nella solitudine cedendo la sedia alla persona media, al pirla standard, all’uomo della strada.
Anche la realtà è così: guarda le classifiche dei best sellers, i prodotti che si la gente si compra, le trasmissioni che guarda. La differenza è che nella realtà un troll non può entrarti in casa e interrompere la tua conversazione con amici intelligenti e istruiti, non può aggredirti verbalmente mentre giustifichi una tua legittima opinione telefonando a tuo cugino. La rete amplifica la televisione volgare, scurrile, per certi versi macabra, che fa il pieno di ascolti perché i media tradizionali devono ancora, per il momento, rispettare un minimo di regole per non finire a processo. La rete no, anzi, ti scegli un nick anonimo e dici delle cose che col tuo vero nome ti farebbero vergognare a sangue o, perlomeno, farebbero capire bene a tutti quelli che ti conoscono che razza di persona sei.
Facebook non è la rete, è quasi il suo contrario. Il suo successo è proprio quello di aver avvicinato quelli che di rete non sanno nulla, non hanno mai sentito parlare di netiquette e parlano in quel modo anche di persona.
Ciò premesso, e se è vero quello che penso, facebook è tutto il resto. È la metropolitana, il bar, l’ascensore, l’ufficio….questi luoghi qui.
Qualcuno ha mai sentito di cosa si parla, e in che termini, in questi luoghi? E allora di che si stupiscono? Non bastava sentirli parlare di persona per capire che un sacco di gente è infrequentabile? Bisognava aspettare che scrivessero su facebook per certificarlo?
Non voglio essere polemico, ma come fa a lamentarsi dei professionisti dell’antirete, pubblicando quasi quotidianamente qualche articolo che esprime la sua valutazione profondamente negativa del ‘commentariato’? I commenti non fanno parte della bella, brava rete? Sono davvero curioso.
La rete non dovrebbe amplificare certe sciocchezze che girano sulla stampa, per di più firmate.
Geronimo, io non ho mai criticato i commenti in quanto servizio: osservo la qualità dei loro contenuti e a seconda dei casi segnalo quando questa qualità mi pare deludente, ed eventualmente decido cosa farne sul mio blog. Ma che spesso segnali le frequenti mediocrità del giornalismo italiano non significa che sia contrario ai giornali, no?
Spero di aver capito cosa intendevi.
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Chiarissimo, grazie.
Nonostante, mi trovo più o meno d’accordo con Sidderi e la sua descrizione ‘tifosistica’ del cosiddetto popolo del web. Non come descrizione demografica, ovviamente. Ma mi pare chiaro che in Italia l’argomento fa parte di una battaglia politica ed economica, in cui alcuni dei maggior blog partecipino anche molto volentieri. Ecco, per descrivere la loro (o vostra) attitudine spesso difensiva-celebrativa, credo che il vocabolario calcistico non sia così sbagliato, purtroppo.
Siccome parla spesso di pretendere e mantenere un grado di normalità per poter ottenere questa normalità (vedi PD, Bindi, etc.), forse non guasterebbe applicare questa filosofia pure al mondo digitale.
Comunque: le mie sono osservazioni da fuori Italia, vanno ovviamente prese per quello che sono: un commento anonimo su internet. :)
L’informazione deve essere libera, anche gli idioti devono poter dire la loro, la vera forza sta nel non sentirsi minacciati da stupidità come quelle espresse da Massimo Sideri.
La rete, che lo si voglia o no, non ha sostotuito la piazza, ha creato nuove piazze, non si può decidere a priori chi può sedersi su una panchina e chi non lo può fare.
Se uno dice stupidaggini in una piazza ha gli uditori che si merita, facebook o wikipedia sono semplici strumenti e, come una benda, può servire a medicare ferite ma può anche essere usata per soffocare o impiccare, non per questo lasciamo le ferite alla mercè dei batteri buttando tutte le bende.
Il problema dell’Italia, è che i giornalisti delle testate principali sono allo stesso livello (basso) di quelli che scrivono le pagine di fb, così come i politici sono allo stesso livello di quelli che si insultano alle riunioni di condominio. E a molti pare normale.
Non è strano che qualcuno scriva cose banali o stupidotte negli editoriali del Corriere, c’è una lunga tradizione (allam? battista?).
Però sembra quasi che il problema del paese sia cambiare il reclutamento di insegnanti o impiegati statali (che già è fatto, almeno, con dei criteri), non quello di chi condiziona l’opinione pubblica.
Quando ho letto della fantastica perizia calligrafica del font Segoe Script sul TG5, ho cercato il nome dell’autore del servizio ed ho trovato questo:
http://www.ilfoglio.it/redazione/4
Non ho parole.
Probabilmente diventerà presto editorialista del Corriere, la domanda che sorge spontanea è: dove li prendono?
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“…il punto è che un’accusa di “macabra ansia da aggiornamento” rivolta dalle colonne di un quotidiano italiano nel 2011 non può avere nessuna credibilità e anzi deve interrogarsi sulle proprie responsabilità nell’aver contagiato il mondo con questa ansia. I mostri di scorrettezza creati dal giornalismo italiano in cerca di titoli e notizie prima ancora di averle verificate riempiono libri”.
SUFFICIT, bravo Luca!
Volevo aggiungere una riflessione sulla generalizzazione espressa con la locuzione: “il popolo della rete”. Come nella vita ci sono gli imbecilli che riescono a mascherarsi con difficoltà, perciò un poco si trattengono. Nella rete invece prosperano con virulenza e si scatenano perché hanno il grande vantaggio di restare rintanati nel loro computer-alter ego che esalta il loro bisogno di non esporsi.
Gli unici autorizzati a sparare tutte le fesserie che vogliono sono i cosiddetti personaggi noti. Loro hanno la invidiabile licenza di insultare gratuitamente tutto e tutti. Se ci si azzarda a criticarli si viene subissati dalle proteste dei loro fan. Quelli appunto che da dietro un computer sfogano le proprie meschine frustrazioni. Ovviamente senza esporsi.
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Secondo me, l’articolo è principalmente dettato dal fatto che la rete toglie spazio ad articolisti di tale fatta.
Anche se loro scrivono banalità, la rete li surclassa in modo incomparabile. E imparabile (non nel senso di imparare…).
la rete gode di ottima salute, nonostante voi giornalisti. qualche limitazione tecnica rompe un poco, il resto è ok