Mondi lontanissimi

È un tema di cui mi è capitato di parlare spesso ultimamente: quello di come in ogni riunione pubblica o privata un po’ numerosa la maggior parte dei partecipanti stia con gli occhi e le mani su smartphone e tablet, si tratti di conferenze, riunioni di lavoro, dibattiti, eventi vari in cui non si capisce bene cosa siamo andati a fare se poi non li seguiamo e cerchiamo di ammazzare il tempo con altro. Ma soprattutto, mi sono chiesto, prima cosa facevamo? Gli scarabocchi, forse: e possiamo dire che tra le cose uccise dalla tecnologia ci sono gli scarabocchi (mi ricordo veri artisti delle freccette e dei labirinti e dei ghirigori). Alcuni dormivano. Altri magari ascoltavano, anche se oggi pare impensabile che riuscissimo a mantenere una qualsivoglia soglia di attenzione che superasse i due minuti e mezzo, o i 140 caratteri. Lascio ad altri le riflessioni di rito sull’isolamento sociale dell’uomo contemporaneo e bla bla bla, ma da un punto di vista antropologico e paesaggistico l’osservazione del fenomeno è interessante.

Oggi la questione è in prima pagina sul Corriere, con il commento di Paolo Di Stefano a un’illuminante fotografia scattata durante il consiglio regionale lombardo. Mentre Di Stefano è forse un po’ riduttivo nella sua analisi – “l’immagine più efficace dell’autismo della politica”, scrive – il titolatore si è giustamente allargato: “Non sappiamo più ascoltare”. Ma io penso in realtà che ascoltiamo tantissimo, che ascoltiamo i nostri smartphone, che ci dicono cose molto più interessanti di quelle che abbiamo intorno: e che prima non esistevano, come alternativa. Quello che è successo è che abbiamo un mondo di informazioni e comunicazioni a portata di mano e tutto quello che non è competitivo con questo mondo perde (io leggo tantissimo mentre cammino, da un po’ di tempo: e il lampione è in agguato). La cosa che colpisce, semmai, è trovare ancora qualcuno che fa i solitari di carte, in questi contesti.

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