Nel 2000, Moby era da tutte le parti. Aveva fatto un disco, Play, pieno di invenzioni e trovate che attingevano in parte dall’elettronica e dalla house music – le cose che aveva fatto fino ad allora – e in parte dal soul e altri repertori più tradizionali. Fece un botto pazzesco in tutto il mondo (che montò lentamente, con ritardo, e poi durò tantissimo) e le canzoni infestavano ogni spot, colonna sonora e sottofondo. Lui stava su tutte le riviste ed era l’immagine dell’innovazione e della creatività. Le aspettative divennero eccessive, e ai dischi successivi lui dimostrò che la sua grande idea (a molti non ne viene neanche una in tutta la vita) se l’era giocata, e quel che poteva fare al massimo era declinarla, ripeterla, sparigliarla un po’: così fece altri dischi con cose gradevoli qua e là, provo a cambiare un po’, ma poco alla volta perse inevitabilmente l’effetto “wow!”. E il mondo intorno accelerò il suo cambiamento e lo sorpassò. «A un certo punto, il successo passa: devi lasciarlo andare», ha detto ora Moby in un’intervista, raccontando quel periodo incredibile, come Play influenzò molto di quello che venne dopo, e il suo nuovo disco che esce in questi giorni. Si chiama Innocents, ci sono dentro molte collaborazioni (Flaming Lips, Damien Jurado, Mark Lanegan), niente che vi faccia dire “wow!”, ma diverse cose piacevoli e divertenti che quelle lui ormai le sa fare. In altri tempi, il singolo “The perfect life” si sarebbe portato via spiagge intere. Ora, devi lasciarlo andare.
Moby, a un certo punto
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