Un team di giornalisti è stato incaricato dal New York Times di analizzare estesamente il modo con cui il giornale sta muovendosi attraverso il cambiamento dell’informazione, delle tecnologie, delle abitudini dei lettori. Il gruppo ha scritto una sintesi di 11 pagine che è online qui per chiunque sia interessato. Contiene alcune cose ovvie che si dicono da tempo, e altre che in molte redazioni faticano ancora a passare. Mi interessa riprenderne in particolare una, perché nelle mie quotidiane frequentazioni con aspiranti giovani collaboratori del Post continuo a verificare che – complice un sistema generale di educazione e cultura molto arretrato e tradizionale – anche i giovani che vogliono fare i giornalisti continuano a immaginare il giornalismo contemporaneo come una cosa in cui si scrivono degli articoli, per il 95%.
Ma in realtà, da una parte l’offerta di scrittura di buona qualità è ormai estesissima e poco competitiva, e dall’altra ci sono invece fertili e stimolanti opportunità di contribuire al miglioramento dell’informazione e alla soddisfazione dei lettori in molti modi diversi. In particolare quelli che riguardano la “promozione” dei contenuti e non solo la loro “produzione”: la capacità di capire dinamiche di lettura e diffusione dei contenuti e sfruttarle per ottenere che – senza abbassarne la qualità – raggiungano più lettori potenziali possibile (almeno il 4,5%, come dicono al Washington Post).
we can benefit from perfecting the art and science of expanding our audience — and there are many ways to do so without jeopardizing our values. Imagine the possibilities if we can become as good at promoting our journalism as producing it.
Changes in technology require us to constantly reimagine what is possible. Changes in reader behavior require us to continually assess what’s working. And these exercises shouldn’t be treated as chores: They can elevate our journalism, extend our reach and enable us to better serve our readers.
Audience development demands a sophisticated blend of other tools and tactics, such as promoting our work on social media, repackaging it for new platforms, optimizing it for search engines, personalizing it to meet readers needs and engaging with readers directly through email and comments.
For someone with a print background, you’re accustomed to the fact that if it makes the editor’s cut — gets into the paper — you’re going to find an audience. It’s entirely the other way around as a digital journalist. The realization that you have to go find your audience — they’re not going to just come and read it — has been transformative.
The home page has been our main tool for presenting our journalism to readers, and millions of them flock to it each month. But like all news home pages, its im- pact is waning. Fewer than half of our readers even see the home page. Instead of seeking us out, more readers are expecting us to find them on places like Facebook and through email and alerts.
An editor at The Washington Post told us: “I tell most reporters, ‘Three percent of the people who want to see your work are seeing it. So if we can get that to even 4.5 percent, it’s worth the effort, it’s worth the struggle.’”
L’offerta di scrittura di buona qualità sarà anche ormai estesissima, ma non sembra. Nel senso che, alla fine, al lettore arriva sì e no. Forse anche, e soprattutto, perché mai pagare (bene) un buon scrittore e/o pensatore quando puoi fare appunto molti più numeri, e quindi pubblicità, e quindi soldi, con tecniche promozionali. In pochi lo rammentano, o forse piuttosto preferiscono non rammentarlo, ma il nanopublishing in Italia ha avuto inizialmente successo, a volte un profumatissimo successo, grazie alla poderosa massa di contenuti, non certo alla loro qualità. Ed inoltre, in una discussione più ampia e non meno amara, ho osservato in prima persona il cambiamento del rapporto tra scrittore e lettore dai tempi dei blog a quelli dei social network: dalla fiducia all’adescamento.
Se vuoi la qualità di scrittura, ne trovi tantissima. Tu parli di chi non la vuole.