Notizie che forse lo diventano

Domenica alle 19 ho visto un tweet di Enrico Rossi, governatore della Toscana, che mostrava una sua foto con una famiglia rom a Firenze. La foto era bella in generale come foto di gruppo ed era in più una palese dichiarazione e provocazione di Rossi rispetto alle diffidenze, accuse e discriminazioni di cui i rom sono fatti spesso oggetto. Ragioni sufficienti perché la retwittassi, come faccio con molte altre cose, immaginandola interessante anche per alcune delle persone che seguono il mio account su Twitter.
Su Twitter, se ne è discusso spesso, noialtri “giornalisti” abbiamo degli standard di priorità delle informazioni e notizie diversi da quelli che abbiamo sui media con cui lavoriamo. Un po’ ha senso e un po’ non ce l’ha, ma è così. Io ammetto di sentirmi più in una situazione “familiare” su Twitter, sensazione che so condivisa, benché faccia a pugni con numeri di follower sempre maggiori (i 150mila del mio account, ora, figuriamoci nei casi delle celebrità). Sul Post ho criteri diversi, e priorità più ragionate e meno istintive: non condivido insomma ancora la linea editoriale del direttore di Gawker che dice che le sue scelte su cosa pubblicare sono legate alla domanda “se stasera vado a una festa di cosa si parlerà?”, anche se capisco l’approccio. Però mi piace trattare Twitter come se fossi a una festa.

E insomma, non ho ritenuto che quella foto di Enrico Rossi – tra le molte cose che ci passano sotto gli occhi continuamente – valesse una segnalazione sul Post: i criteri per questo sono diversi, fluidi, aggrovigliati, qualche volta quindi si contraddicono o fanno i conti con le forze disponibili, ma ci sono. Metteteci anche il fatto, ripensando a come posso avere ragionato, che conosco Enrico Rossi abbastanza da non essermi stupito di quella foto e da non avere dubbi sulle sue buone intenzioni: sulla contemporanea “normalità” di quella scena, insomma.
Poi è successo, come avete notato, che da lunedì in poi – dopo già un po’ di agitazioni sui social network – i grossi media tradizionali hanno deciso invece che quella foto, e una reazione alla foto di Matteo Salvini, e alcuni commenti online alla foto, fossero “una notizia”. Ho visto che se ne parlava lunedì sera a Piazza Pulita, ho visto cose sui quotidiani martedì.

E arrivo al punto: ho quindi mancato di intuire che una cosa era una notizia, avendola vista per tempo? Oppure ho tenuto fede a un’idea di gerarchia delle notizie diversa dal mainstream generale che il Post ha rivendicato dalla sua nascita, anzi che è tra le ragioni per cui lo abbiamo fatto, il Post? E quand’è che questa idea di priorità diventa snobismo e distanza della realtà?
Non è una questione che riguarda solo la foto di Enrico Rossi, ma tante scelte che facciamo ogni giorno su questioni anche più importanti, e la foto di Enrico Rossi è un buon esempio per parlarne. E non riguarda solo le scelte che fa il Post: il caso estremo e noto di confusione tra notizia e notizia “percepita”, è quello della leggenda (non del tutto leggenda) dei direttori dei quotidiani che si consultano sulle rispettive notizie principali, o che comunque ritengono “un buco” una notizia che abbia un quotidiano concorrente e il loro no, a prescindere dal valore proprio di quella notizia.
C’è, ovvero, un’attenzione su un fatto, seguente a quel fatto, che diventa essa stessa la notizia anche quando il fatto non lo era. Che ci piaccia o no, per restare al Post, le scelte criticabili che fanno i grandi media – ma anche i gusti e le curiosità di tutti noi lettori – rendono rilevanti e interessanti cose che di per sé potrebbero non esserlo, cambiando il fatto a cui si riferiscono con la loro attenzione.

Come sapete, questo è un fenomeno a cui il Post ha preso in parte le misure, intervenendo spesso a spiegare e ricapitolare storie e notizie che non ha ritenuto di seguire dall’inizio: perché l’attenzione e l’interesse e la promozione su quelle storie le hanno rese una notizia. Se, estremizzo, cinquanta milioni di italiani comprano il libro di Bruno Vespa, beh forse è il caso di capire perché e cosa c’è dentro, al libro di Vespa. Se invece non succede, il tema è poco interessante, almeno per il Post.
Se però non si estremizza, ci sono ampie zone grigie in cui è difficile fare una scelta: prendete le foto di Kim Kardashian, per esempio. Beh, in quel caso io sono col direttore di Gawker: trascurate inizialmente, poi però tutti le guardiamo, tutti le commentiamo, e diventano una cosa (senza essere in sé niente di disdicevole su cui esercitare una censura “educativa”, come può essere per esempio il caso di alcune trascrizioni di telefonate, di certe dichiarazioni politiche circensi o di certe immagini indiscrete).
Un altro esempio più complicato: una notizia falsa (o una dichiarazione assurda) che fa il giro dei grandi media e ha addirittura conseguenze, benché falsa. Succede spesso con la politica, ma non solo, e cambia le cose. Se invece Razzi dice che andrà all’Isola dei Famosi, o Grillo manda qualcuno affanculo, non cambia niente, ed è solo parte di un circo quotidiano fine a se stesso e da sbadiglio.

Alla fine, è un terreno mobile su cui non ci sono confini esatti: ognuno che fa questo tipo di lavoro mette ogni giorno sotto esame i propri criteri, e si domanda ogni volta cosa li generi, chiedendosi continuamente “me la sto raccontando?”. Se avessi deciso di mettere sul Post quella foto di Enrico Rossi domenica alle 19, molte ore prima che lo facessero tutti gli altri, lo avrei fatto perché mi sembrava una cosa o perché pensavo avrebbe attratto reazioni sciocche ma numerose? E non avendolo fatto, era il caso di tornarci 24 o 36 ore dopo?
Forse era una cosa, piccola, quella foto, e metterla sul Post avrebbe avuto del tutto senso così come ha avuto senso trascurarla. Forse lo è diventata dopo, e il fatto che sia stata seguita da un’immagine “speculare” dello stesso oppositore politico di Rossi che l’aveva contestata ha reso tutto quanto una piccola storia dell’aria che tira. Piccole scelte di tutti i giorni.
La cosa rilevante è che – con i propri criteri e le proprie ambizioni – si cerca di raccontare il mondo e di capirlo: comprese le cose del mondo che si vorrebbero cambiare non raccontandole. E se vi pare spettacolarmente contraddittorio, avete afferrato la difficoltà.

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4 commenti su “Notizie che forse lo diventano

  1. Valentina Accorsi

    L’argomento sul quale si decide di tacere e´ di gran lunga piu´ interessante di quello su cui si decide di parlare. Una iperbole se vogliamo, ma che ben descrive il criterio di scelta che ci dovrebbe guidare, come lettori, in un mare di sovrainformazione, spesso illeggibile. Dalla Cina leggo solo quotidiani online, i tg li ho lasciati a casa, e forse la distanza e il non essere influenzata dalla televisione mi ha reso una utente piu´ rigida, in ogni caso, il risultato e´ che proprio le scelte di pubblicazione – ossessive, ridondanti e retoriche – di diverse testate principali mi hanno spinta a non seguirle piu.

  2. Raffaele Birlini

    Ci sono due aspetti da considerare, entrambi inerenti la popolarità di qualcosa. Perché di questo si parla, di popolarità, che la si misuri in click, in pezzi venduti o voti presi. Anche la popolarità si presta a giudizio di valore: c’è quella buona e quella cattiva. Chi decide se è buona o cattiva? L’autorità (quale autorità? con che caratteristiche? messa lì da chi? una volta il giudice era inviato e ispirato da dio, l’imperatore incoronato dal papa, il faraone era figlio di dio)? Oppure la maggioranza (la maggioranza può decidere meglio della minoranza in nome di un principio idealistico di egalitarismo democratico, del tutto acritico, per cui, ad esempio, mille con la licenza elementare son più saggi di dieci laureati)? La popolarità di un serial killer che riceve proposte di matrimonio in carcere. La popolarità di un leader storico che ha ucciso milioni di persone. La popolarità di una star mediatica. La popolarità è considerata indice di successo solo quando viene associata al bene dall’autorità (che può essere la maggioranza dei cittadini/elettori/contribuenti/consumatori). I media, i mezzi di comunicazione di massa, hanno il potere di rendere popolari le idee come la pubblicità fa coi prodotti. Si chiama propaganda, parola che ha assunto una connotazione negativa sempre per il meccanismo del giudizio di valore fondato su una morale variabile, dove le cose sono buone o cattive a seconda dell’umore, del clima, di come la pensa il tale opinionista, degli interessi personali o nazionali, della tal azienda o del tal partito. Veniamo alla foto coi rom, è diventata popolare come lo diventa la provocazione di un troll, perché dà scandalo e fa parlare la gente? O è popolare in quanto permette di tirare una linea fra buoni e cattivi, spingendi i cattivi a mostrarsi e ai buoni di averli di fronte e scaricare su di essi la santa rabbia del giusto? Il politico vive davvero coi rom e ci tiene a farlo sapere a tutti o è una campagna mediatica? Il dilemma dell’editore non è così spaventoso: rende conto a due principi: quello economico e quello politico. Non sei un mecenate. Pubblichi ciò che fa incassare e chiudere i bilanci senza perdite. Pubblichi ciò che rientra nella “narrazione”, ovvero che non ti rende inviso, antipatico, in qualche modo colpevole (anche solo di complicità, connivenza, appoggio esterno) agli occhi dei “buoni”, che sono tali in virtù di una morale relativa, fumosa e ondivaga, orientata all’idealismo, che non tiene conto dei vincoli di realtà, una forza morale esercitata da un’autorità anch’essa debole, frammentata, indecisa, dipendente da un consenso ottenuto con l’inganno della “narrazione”, ovvero dalla propaganda, della pubblicità, ingannevole per definizione. La morale non è una variabile religiosa che può essere cancellata dall’equazione del convivere civile. Nel tuo piccolo, quello che fai è l’autorità connessa al ruolo di potere che ricopri nella catena gerarchica al fine di compiere scelte morali. Queste scelte ti sembrano un dilemma perché sei in conflitto tra ciò che senti buono in assoluto e ciò che senti buono in relazione alle preferenze della tribù, che sia la tribù dei tuoi familiari, dei tuoi clienti, dei tuoi colleghi, dei tuoi correligiorari, dei tuoi compagni di partito, del tuo popolo, degli occidentali come te, della porzione di umanità a cui ti rivolgi. Per questo è molto più semplice scaricare il conflitto di coscienza in termini economici (decide il mercato), o in termini democratici (decide la maggioranza), serve a scaricare la responsabilità delle proprie azioni, è come dire stavo solo eseguendo gli ordini, stavo seguendo la corrente, stavo facendo il simpatico, stavo evitando di fare scelte tali da farmi ritrovare espulso dal club, dal giro, dal partito, dalla chiesa, dalla famiglia, dalla tribù. Si chiama conformismo, non c’è niente di strano o anormale, è del tutto naturale negli animali sociali.

  3. Qfwfq71

    Il ragionamento fila.
    Nessuno può entrare nella mente del direttore sul perchè di alcune scelte, sulle quali si assume la responsabilità.
    Nel merito, la foto di Rossi mi è sembrata una bella risposta al Salvini che si faceva invece menare visitando un campo Rom; anche Rossi probabilmente ha agito nella speranza di creare un caso (provocando reazioni che facessero parlare di lui).
    Resta sullo sfondo la triste sensazione (confermata indiretamente dal resoconto di questo post) che per essere preso in considerazione come notizia, un evento debba avere un portato di violenza o di aggressività.
    Infatti questa foto “amichevole” e pacifica è diventata una notizia solo dopo che Salvini l’ha resa fonte di discussione polemica.
    Capisco che i giornali non campano certo su notizie che dicano: “oggi tutti si sono voluti bene, non è successo nulla!”

  4. cinziaopezzi

    “rendono rilevanti e interessanti cose che di per sé potrebbero non esserlo, cambiando il fatto a cui si riferiscono con la loro attenzione.”

    un modo precisissimo per dirlo

    adesso so chi è kim vattelapesca

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