Caro Massimo Gaggi, ho letto con interesse la tua riflessione a pagina due sul Corriere su cosa debbano fare i media tradizionali rispetto alle macabre comunicazioni promozionali dell’ISIS che arrivano attraverso internet e i social network. Il tema è attuale e riguarda tutti – in quanto condivisori e diffusori – ma naturalmente di più chi fa i giornali, e alcuni come Internazionale o RaiNews24 hanno espresso posizioni decise contro il farsi messaggeri obbedienti a queste dinamiche: pubblicare un video di un’uccisione da parte dell’ISIS è mostrare un fatto e farlo capire con la forza delle immagini, o è l’equivalente sanguinoso delle “marchette” con cui vengono pubblicati supinamente certi comunicati stampa?
Poi la tua riflessione mi interessa come mi interessano tutti i pensieri che riguardano i ruoli dei giornalisti e di chi ha molti lettori, e le sue scelte hanno un potere e sono un modello. E la riflessione, come ho detto, c’è eccome. E mi interessa la questione di come i “nuovi media” cambino le cose nel giornalismo e se, come scrivi, “sapevamo che ci avrebbero resi più liberi ma anche più vulnerabili”.
Però è il caso che l’ha generata che mi pare quello sbagliato: si tratta della foto di una delle persone italiane uccise a Tunisi mercoledì pubblicata su Twitter con un messaggio spregevole e aggressivo.
Una X tracciata con un pennarello rosso su una vecchia immagine sfocata di Francesco Caldara: un tranquillo pensionato di Novara, un 64enne in gita, viene trasformato dalla propaganda jihadista in un «crociato italiano schiacciato dai leoni del monoteismo». E torna il dilemma che si è affacciato tante volte in questa stagione di terrorismo sempre più feroce e diabolicamente abile nello sfruttamento dei moderni «media»: pubblicare o non pubblicare?
Adesso, mi permetto di sollevare un altro problema, che non credo sia indipendente da quello a cui ti riferisci tu, perché entrambi chiamano in causa un’attitudine al ragionamento sulle cose, alla prudenza, all’accuratezza in quello che si fa, alle scelte ponderate e responsabili da mettere poi in discussione pubblica. Il tweet che citi non è stato credibilmente attribuito a niente o nessuno che abbia un ruolo rilevante rispetto all’ISIS o alla “propaganda jihadista”. In termini giornalistici, è uno di milioni di tweet scritti ogni giorno, e nient’altro. Tant’è vero che gli articoli dei maggiori quotidiani italiani che hanno scelto di dargli risalto sono portati a usare formule generiche ed enfatiche prive di qualunque concretezza, che sembrano rivelare il non averne trovata alcuna.
“Gli analisti dei social network pescano un altro tweet riconducibile ai seguaci dell’ISIS”
(Corriere della sera)
“L’immagine è apparsa in un account Twitter vicino ai simpatizzanti del Califfato”
(Repubblica)
“Su un account di un simpatizzante dell’ISIS è apparsa l’immagine di Francesco Caldara”
(La Stampa)
(trascuro i molti che hanno titolato “ISIS pubblica foto di…”, che stiamo parlando tra persone serie)
A quanto vedo, nessun media internazionale o sito di osservazione delle cose dell’ISIS ha dato conto di quel tweet o l’ha preso in qualche considerazione. Non perché quel messaggio non sia ributtante, ma perché la “ributtanza” non è un criterio giornalistico: mentre lo sono l’attendibilità e la rilevanza. E quello di cui stiamo parlando è un tweet: a quanto ne sappiamo per ora, stiamo parlando di una persona, sconosciuta. Ci stiamo quindi per il momento occupando di una persona sconosciuta che ha scritto un tweet idiota e ributtante mentre un altro miliardo di persone ne scriveva degli altri. A meno che non verifichiamo che invece quel tweet abbia intenzioni e strategie più autorevoli e significative, che è il nostro lavoro: e se è, lo scriviamo e spieghiamo; e se non lo è, ci occupiamo d’altro senza indurre in equivoco i nostri lettori sulla portata e significato di quel tweet.
Ecco, la tua domanda «pubblicare o non pubblicare?» mi sembra che abbia una risposta più accessibile se trascuriamo in questo caso i nuovi media, e recuperiamo i preziosi criteri dei vecchi.
Ti saluto.