Per alcuni giornali italiani (Repubblica, il Giornale, Libero, il Tempo, più di altri), i criteri di scelta delle titolazioni degli articoli – e a volte degli articoli stessi – sono soprattutto due: paura e zizzania. Se voi una mattina li leggete ignorando i titoli orientati da questi due messaggi, impiegate davvero poco tempo.
Della paura si sa: allarme, rischi, pericoli, ipotesi nefaste, cose da temere, possibilità sgradevoli, creano un repertorio che va tecnicamente sotto il nome di “terrorismo mediatico” e che a volte si avvicina alla fattispecie giuridica del “procurato allarme”, ampiamente familiare a esperti e lettori. Le titolazioni ci investono molto, selezionando negli articoli quello che può generare questi effetti e anche creandolo artificiosamente quando non c’è. L’idea è che ciò che genera paura e preoccupazione – ma anche indignazione e collera conseguenti – attragga di più l’attenzione dei lettori, soprattutto in tempi di crisi dell’attenzione dei lettori. La conseguenza è un quotidiano innalzamento della soglia della paura – ci si abitua a tutto – che costringe ogni giorno a dire cose più paurose e dirne di più.
L’altro investimento che queste testate fanno massicciamente è sullo scontro, il litigio, con conseguente produzione di violenza – verbale, di solito: ma dagli effetti anche molto concreti – tra attori i più vari: con l’obiettivo di coinvolgere la curiosità dei lettori sullo spettacolo che ne deriva, o di coinvolgerli nel litigio stesso. Se ci pensate, non è niente di nuovo, dal Colosseo in poi, passando per lo sport e per i più simili meccanismi di scelta degli ospiti ai talkshow televisivi: più la competizione è accesa e dagli effetti imprevedibili, più il pubblico la segue. La bonaccia, la norma, la concordia, non fanno spettacolo e non attraggono lettori. Questo spiega perché appena insediato chiunque in qualunque ruolo si trovi ed esalti qualcuno che lo attacca, perché i governi siano sempre a un passo dalla crisi e dilaniati da tensioni interne, perchè i sondaggi dicano sempre che qualcuno sta andando male, perché le dichiarazioni polemiche ottengano grandi – e travisati – virgolettati, perché ogni sodalizio professionale o personale debba nascondere una tensione o un tradimento. È rottura, è crisi, è polemica, ai ferri corti, punta il dito contro, è lite, c’è sempre qualcuno che attacca qualcun altro, e una scissione incombente. E anche in questo caso, tutto questo alimenta a sua volta le tensioni e i contrasti stessi: leggete i titoli e dite se non vi sembra che tutto intorno ci sia un inferocimento tignoso generale, e se non vi sentite un po’ inferociti e tignosi anche voi.
(Un esempio abbastanza spettacolare di questa strategia della tensione è stato il modo con cui ho letto riportata ieri la notizia dell’assoluzione di Erri De Luca. Storia la cui sintesi ragionevole – e qualcuno l’ha posta in questi termini, per fortuna – era questa: eccitato polverone creato a fini circensi da diversi soggetti interessati intorno a un’interpretazione sciocca del reato di istigazione a delinquere (i reati di opinione non c’entravano niente), polverone che è stato infine spazzato via da una sentenza, e quindi tutti a casa, circolare, festa finita. E qui il meccanismo sopracitato si è mostrato in tutta la sua precisione ed efficacia: investendo immediatamente – con titoli e interviste e commenti – sull’accusa di De Luca: “Gli intellettuali non mi hanno difeso”.
E per un altro po’ siamo coperti.)
“Sofri attacca il giornalismo italiano. Ed è subito polemica.” [semicit.]
Come dire che se dipendesse dai giornali in Italia le cose non andranno mai per il meglio. A loro non conviene, meglio investire nello “scontro mediatico” rende di più e ci si assicura la sopravvivenza. Esagero?
È sempre stato “il limite dei giornalisti” (quasi tutti), più che dei giornali che sono figli loro.
Il loro esibizionismo ha alimentato il sensazionalismo.
Un tempo si salvavano almeno le cosiddette “terze pagine”, ora scomparse.
In tv rimane ancora qualcosina, ad esempio il “dossier”di approfondimento all’interno del tg2 serale.
Per il resto è una partita persa per i media tradizionali, ed è per questo che hanno successo i social network ,vera alternativa a questa bieca e opportunistica pseudocultura giornalistica fatta solo più di titoli roboanti.
A dirla tutta anche l’editoria si e è allineata al “titolismo”. Sempre più spesso la parte più valida di un “fantastico e superpremiato” nuovo libro è proprio solo il titolo!!