Quindi eccoci. Benvenuti in America.
A un certo punto del bell’articolo di George Saunders dedicato ai sostenitori di Trump incontrati seguendo la sua campagna – un articolo sul New Yorker di questa settimana – c’è questa massima sintesi della rassegnata depressione che abbatte l’autore e il lettore in diversi momenti della lettura: il lettore italiano, pur nelle differenze, non fa fatica ad esserne coinvolto ugualmente. Per esempio in quest’altro passaggio, che segue il racconto dei confronti tra sostenitori e contestatori di Trump.
Se siete come me una persona sentimentale di mezza età che apprezza certi concetti Coplandiani sull’essenziale bontà della nazione, vedere queste cose coi propri occhi – adulti che si urlano addosso rabbiosamente senza nessuna ambizione di spiegarsi, dedicati solo a un’escalation di cattiveria – riempie di una palpabile tristezza le vostre gambe magre e fuori esercizio, e vi sentite crollare sfiniti addosso a un albero in un parco pubblico, finito il comizio, disperati. Assetati di qualcosa di positivo (basta litigi, basta insulti, vi prego, vi prego), cercate di restare in piedi e attraversate una strada trafficata, per imbattervi, in un piccolo centro commerciale in stile messicano, in un matrimonio in corso. Arrivano le damigelle, ciascuna con uno spiazzante cane al guinzaglio, e i cani hanno un tutù, e uno dei due è un cucciolo troppo piccolo e la damigella lo porta in braccio.
Ed è una scena di incredibile sollievo.
Tutto l’articolo alterna momenti di disperazione ad altri di speranza e riconoscimento di tratti commoventi, complici e promettenti nelle persone che Saunders incontra e con cui costruisce colloqui di grande e varia umanità. George Saunders è quell’autore diventato molto famoso e citato negli ultimi anni per una sua grande bravura di scrittura e una sua inclinazione un po’ “inspirational” a cercare e spiegare i nostri potenziali migliori tratti psicologici. Il suo lungo articolo, di cui seleziono volentieri alcune parti molto efficaci, ma se lo leggete tutto meglio, comincia da Trump stesso ai suoi comizi.
Non cerca di convincere, spiegare, dimostrare: cerca di agitare, eccitare, piacere, essere amato, qui e ora. Cerca di produrre energia.
La distanza dei temi, delle parole, dei confronti, delle discussioni, dai fatti e dalla realtà è un tratto che emerge continuamente (siamo in una “democrazia post fattuale” è il concetto diventato mainstream in queste settimane: aliena nei suoi dibattiti alla rilevanza della realtà e dei fatti): lo stesso Saunders realizza di aver cercato su Google delle informazioni non per capire chi avesse ragione in una discussione, ma per “trovare un mio martello per screditare Bush e il pensiero conservatore” sull’occupazione negli Stati Uniti, così come i suoi interlocutori avevano usato un martello per screditare Obama e il pensiero liberal: “per dire una cosa vera, ma non vera nella complessità delle cose“. Solo un pezzo, quello che serve a sentirsi nel giusto.
E l’impressione è che persone come noi, che riconosciamo, con cui condividiamo molto – ci sono i matti e i freaks, certo: ma sono una minoranza – facciano cose che non riusciamo più a spiegarci, e viceversa.
Il sostenitore di Trump è tuo fratello che ha appena portato a casa una nuova fidanzata davvero impresentabile. Beh, impresentabile per te.
Trump ha un consenso intorno al 40%, in tutto il paese. Se hai dieci fratelli e quattro di loro portano a casa delle nuove fidanzate impresentabili, cominci a chiederti cosa stia succedendo nella tua famiglia per cui il tuo sentire si sia così allontanato da quello dei tuoi fratelli.
Un’altra riflessione è sulla priorità polemica e aggressiva delle opinioni espresse (si sarà capito a questo punto che non è solo dei sostenitori di Trump che stiamo parlando), alle quali è difficile trovare un fondamento oppure una reale rilevanza per chi le esprime: ad alimentarne la forza è altro.
Esibiscono opinioni a favore della legalità e dei diritti dei veterani di guerra, in una maniera che sembra implicare che il resto di noi sia contrario a queste cose.
Soprattutto, si dicono “anti politically correct”, che – a quanto capisco – significa che hanno una particolare avversione per quell’istante psicologico in cui, dopo aver pensato una cosa, decidi che non è una buona cosa e che potrebbe ferire qualcuno senza che ce ne sia bisogno, e quindi decidi di non dirla.
Questi passaggi invece approfitto per legarli al discorso che avevamo fatto qui.
Quello che unisce tutte queste storie è una cosa che ho deciso di chiamare sindrome da ansia di usurpazione: la sensazione di poter essere continuamente sconfitto, superato, o sottratto di qualcosa da parte di un Altro con intenzioni criticabili.
A volte mi sono sembrati, come me, americani solo appena in difficoltà, imbevuti di giovanili e irragionevoli aspettative di autonomia, gloria e successo, e che le loro sofferenze siano più teoriche che reali, più indotte dai media che legate a esperienze vere.
C’è qualcosa che non va, si dicono le persone comuni, lavoro troppo e ho troppo poco; c’è una distanza che le stordisce tra i loro interessi quotidiani e (1) il modo in cui si comportano e parlano invece i leader e (2) il modo in cui i mezzi di informazione li raccontano o non li raccontano proprio.
Cosa vogliono? Qualcuno che li noti e noti i loro problemi.Se diventi arrabbiato, ti senti potente. Trump lavora sulle paure delle persone spaventate per renderle arrabbiate, e questo rende noialtri, dall’altra parte, spaventati. Eccetera. È un circolo vizioso. E continuerà anche senza Trump.
Infatti arrabbiati siamo tutti, e Trump vale molti altri, come dicevamo nei giorni scorsi. Malgrado le belle giornate di sole.
A un certo punto, in coda fuori dal comizio di Fountain Hills, frustrato da una litania di lamentele contro Obama elencate da una donna davanti a me, le dico che penso che la vita sia bella, piuttosto bella, no?
– Pensa sia una bella cosa?
– Sì, certo. Siamo qui, è una bella giornata, facciamo una bella conversazione…
La sintesi di Saunders (“Benvenuti in America”) mi ha ricordato quella di Luttazzi 2002 (“Benvenuti in Italia”).
Laddove il discorso continua a cozzare pesantemente è nel dare per scontato che Trump è l’uomo sbagliato(e su questo sono quasi d’accordo) che porta soluzioni sbagliate (e qui ci sarebbe da discutere,al netto della sua poco elegante vena xenofobica).Quello che manca a tanti analisti,compreso l’autore del blog,è capire che-specie in Italia-la politica di stampo socialdemocratica non sa più dare risposte,specie se-Pd-è diventata una leva veterodem(nel senso di democristiana) imbevuta di confindustrialesimo,il nuovo feudalesimo nascosto.
Cose vecchi,forse era meglio parlare dei 10 anni dalla morte di Syd Barrett.
Non mi piace questo tema strisciante del “sta succedendo qualcosa che ci sfugge, una follia, un’apocalisse”. Questa “famiglia” non è cambiata all’improvviso, questi dieci fratelli non hanno sempre portato fidanzate presentabili: c’è stato un Bush figlio, e prima un Bush padre, e prima un Reagan e prima un Nixon (per farla semplice). Non aiuta l’analisi sottolineare l’assurdo o vedere solo l’irrazionale.
@andrea73
hai ragione
però il salto di qualità non indiferente è che almeno fino ad oggi i quattro fratelli un po’ delle loro fidanzate si vergognavano, erano consapevoli di quella impresentabilità.
Oggi essere impresentabile diventa motivo di orgoglio.
Il che da una parte è enormemente liberatorio e se aiutasse veramente a liberare la politica delle mille ipocrisie sarebbe anche benefico per le istituzioni stesse.
Quello che preoccupa è la deriva incontrollata che questa liberazione rischia di portare.
Un articolo che mi ha ricordato i tristi giorni del 94, quando mio fratello si scoprì berlusconiano, insieme ad una buona fetta del paese. (a lui, per fortuna, l’infatuazione è durata pochi mesi)
Un incubo da cui ho sperato a lungo di svegliarmi, invano, il berlusconismo è sopravvissuto al suo artefice.
D’altra parte questo paese è sempre stato all’avanguardia nelle sperimentazioni politiche destrorse e sono sicuro che Trump ci ha studiati con attenzione.