A che santi votarsi

E insomma, tolto chi si perde ancora in capricci ed equivoci sull’uso della parola “élite”, mi pare che le persone progressiste che hanno finalmente cominciato ad affrontare il declino egoista, retrogrado e ignorante delle nostre società e della nostra politica, una sintesi l’abbiano trovata, e la leggo in un articolo al giorno: “ci vuole una ricostruzione delle élite”. Oppure, per metterla più semplice a chi si perde ancora, ci vogliono nuove classi dirigenti progressiste consapevoli del cambiamento e disposte ad affrontarlo. Oppure, se qualcuno si fa irritare persino da “classi dirigenti”, ci vogliono persone nuove a occuparsi delle cose importanti in rappresentanza degli altri, che abbiano capito che è successo qualcosa di nuovo.

Il tema, in particolare in Italia, oggi mi sembra questo, e direi che possiamo dire di averlo detto, ormai: senza che lo debba riscrivere ogni giorno anche l’ultimo dei commentatori. La questione da affrontare è invece la sua palese complicazione: ovvero che nessuno ne voglia sapere, né di diventarlo né di far diventare qualcun altro, classe dirigente. Soprattutto in politica. Lo mostrano due scenari molto concreti.

Il primo è lo scarso orizzonte dei molti di noi che arrivano alla sera con la sensazione che la quota di inettitudini e fallimenti e umiliazioni di cui è protagonista ogni giorno l’attuale maggioranza politica possa promettere qualcosa di buono sulla sua fine: senza che siamo capaci di sollevare lo sguardo e vedere come non ci sia, a rimpiazzarla eventualmente, né un’alternativa politica né un pensiero alternativo diffuso. La maggioranza degli elettori vuole questa cosa qui, o qualcosa che le somigli, persino in peggio. Quindi hai voglia a raccontarti che “prima o poi si schiantano”: se succede, sarà come rallegrarsi di aver svuotato il catino in cui perde il tubo del lavandino.

L’altro scenario esemplare di come non si stia facendo niente per il lavandino è il percorso del PD: che avendone ancora la maggiore responsabilità non sta facendo niente per costruire la nuova classe politica di cui sopra. A ottenere la sua leadership oggi competono oneste ed esperte persone che non mostrano nessuna particolare duttilità al cambiamento, e che lasciano capire che il loro progetto sia rifare tutto quello che diligentemente hanno fatto nelle loro vite politiche finora e sperare che per qualche inimmaginabile ragione questo faccia loro trasformare le sconfitte in vittorie. Al tempo stesso, nessun lavoro di aggregazione e discussione è stato avviato per creare pensieri, progetti, leadership nuove. Ma neanche letture di cosa sia successo.
(Oggi Repubblica intervista Rosy Bindi, e lei dice che il problema sono Franceschini e Fassino, per dire).

Qualcuno dice, anche giustamente, “però si facciano avanti, nuovi progetti, nuove persone, nuove aspiranti leadership”: e infatti non si fanno avanti, non si fa avanti nessuno. Li si può capire, e la demotivazione è parte del problema.
Avevo detto già tanto tempo fa che, tolte le considerevoli diffidenze per l’uomo e per l’ispirazione originaria, il progetto di qualche anno fa di Luca di Montezemolo era stato esemplare come metodo per la politica italiana: un lavoro di formazione di un gruppo pensante di persone nuove da introdurre nella politica, e che le ha introdotte. Un altro caso era stato il più improvvisato e duttile percorso che aveva radunato nello stesso periodo molte persone mediamente giovani a un progetto di rinnovamento del PD, con un lavoro di gruppo esteso che aveva creato una visione del mondo contemporanea e moderna e prodotto diverse competenze arrivate poi al governo e al parlamento negli ultimi governi di centrosinistra.

Queste pratiche sono state poi sciaguratamente trascurate da Matteo Renzi, che ha creduto e fatto credere che bastassero le sue capacità e la sua persona – circondata da un fedele gruppo di esecutori – a cambiare un paese: una cosa che dicevamo allora per commentare l’indifferenza renziana alla creazione di un progetto che andasse oltre se stesso, e la sua inclinazione ad abbandonare o trascurare possibili e capaci compagni di leadership e progetto, era “se domani Matteo Renzi sparisce, cosa resta?”. Domani è oggi, Matteo Renzi è sparito per note ragioni, e non è restato niente. Niente di utile: non si offendano le discendenze politiche renziane, orfane e inermi.

Non è centrale, ma lo cito come ulteriore esempio: mi pare che Carlo Calenda stia correndo lo stesso rischio, con la costruzione di un progetto che è “Carlo Calenda” e nessun altro intorno. Anche avesse qualche risultato nel lavoro di alleanze, a quale nuova visione e strategia nei confronti del mondo cambiato sta portando acqua? Alla propria, solitaria? Al PD del 2006? A una “sinistra” fumosa, sfilacciata e demotivata da riappiccicare grazie a Calenda – che ci mette del suo anche per dividerla, per legittimo carattere – per poter raggiungere di nuovo un 20%?

Poi è chiaro che domani è meglio un 20% che un pugno in faccia, e sono preziosi Calenda e chi lavora a evitare il pugno in faccia domani: ma il problema è il dopodomani. Chi ne ha il potere e le risorse dovrebbe cominciare a dare seguito a quell’analisi – “ci vogliono nuove classi dirigenti” – formando, incentivando e aggregando persone valide e di buona volontà con una prospettiva contemporanea e nuova, costruendo un progetto fuori o dentro al PD. Oggi è ancora più difficile di dieci anni fa – quando una generazione di  sinistra sgomitava per cambiare cose vetuste – perché le generazioni sono comprensibilmente demotivate e disperate e il nemico non è più il vecchio conosciuto ma una specie di nuovo difficile da afferrare. Ragione di più per non aspettarsi che si crei da sola, la nuova classe dirigente, e creare le condizioni: chi ne ha il potere e le risorse.

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