All’inizio del documentario sulla scomparsa di Madeleine McCann, che è da poco su Netflix, si accenna una cosa piccola che volevo annotarmi. Poi sono andato avanti e ho visto tutte le otto puntate e quindi ne scrivo qualcosa in più: nel Regno Unito è stato criticato esageratamente, soprattutto perché “non aggiunge niente di nuovo”, ma per chi fuori da quel paese non è stato travolto dall’impazzimento mediatico e generale del caso è invece una ricostruzione piuttosto ordinata e ricca di una storia pazzesca che è fatta di due storie pazzesche: quella della scomparsa della bambina inglese in un resort turistico portoghese nel 2007 e quella delle conseguenze che indagini e mezzi di informazione hanno generato intorno a quella scomparsa, con la partecipazione del pubblico britannico e portoghese. Il limite davvero grosso del documentario – che come tutti i documentari ha dei punti di vista, pur facendo parlare quasi tutti: salvo i genitori che hanno voluto starne alla larga – è la sua lunghezza: otto puntate potevano essere due, e tantissime cose sono diluite, ripetute, trascinate fuor di misura, come capita spesso con Netflix.
La cosa strana nella successione di personaggi che compaiono nelle varie puntate è come il documentario riesca a restituire una divisione piuttosto netta ma credibile tra buoni e cattivi: che di solito è una semplificazione appunto non credibile e palesemente artificiosa. Qui l’idea che le cose siano complesse e in ognuno ci siano alternanze di generosità ed egoismi, successi ed errori, viene attenuata con grande efficacia: ci sono grazie al cielo personaggi di credibile ragionevolezza, sensibilità ed altruismo (tra le vittime, i genitori per primi ma anche i perseguitati innocenti; tra i giornalisti, i due autori del libro; tra gli investigatori; tra i responsabili delle istituzioni sui bambini scomparsi; tra le corti di giustizia che hanno condannato i tabloid), ma ci sono soprattutto – nelle stesse categorie, vittime escluse – una sequenza disperante di scelleratezze, disumanità, stupidità, sciacallaggi, incarnati in protagonisti diversi, veri costruttori del male. In questo, è impressionante come delle due macrostorie che ho citato all’inizio (la scomparsa e la sua eco) restino completamente invisibili e ignoti i responsabili della prima tragedia mentre ci sia una folla chiara e riconoscibile di responsabili della seconda. E se il documentario ricorda quello su Perugia e sull’omicidio di Meredith Kercher nell’esibire la colpevole stupidità meschina e disgraziata delle due categorie di inquirenti e giornalisti, in questo caso quella dei secondi batte quella dei primi di gran lunga. Senza alimentare un sentimento stupidamente generalizzante contro i giornalisti, vedere La scomparsa di Madeleine McCann è però l’argomento definitivo per annientare quelle sciocchezze corporative e altrettanto generalizzanti in difesa della “professione giornalistica” di cui avevo scritto di recente. Vedere di cosa sono stati capaci molti giornalisti in questo caso, come lo rivendichino, come sia una consuetudine, chiude la discussione con chiunque voglia difendere sempre e ciecamente “il lavoro dei giornalisti” in quanto tale e metterlo pregiudizialmente al riparo da critiche, condanne, sanzioni e distinguo. Chi devasta delle vite – compreso il supplemento di devastazione per quella dei genitori McCann – per sciatteria, ambizione, incoscienza e malintesa sopravvalutazione del proprio ruolo di giustiziere, può avere scritto alla voce “professione” qualunque cosa: ma quello rimane, un costruttore del male. E per fortuna ci sono giornalisti che se ne vergognano, di quel modo di essere giornalisti (modo estesissimo, non eccezionale): gli altri, indulgenti, comprensivi, rassegnati, sono complici della sequela di mostri “normali” che appaiono nel documentario vicino alla didascalia “giornalista” (quella che dopo aver partecipato a tutte le gogne di innocenti si giustifica accusando la polizia di averle passato informazioni false è il caso più rivelatore).
La cosa piccola di cui volevo scrivere invece è questa: la bambina Madeleine McCann non si è mai chiamata “Maddie”. Il nome con cui la conosce mezzo mondo è un’invenzione dei media, per ragioni di svenevole ruffianeria sentimentale (oggi ho letto su un quotidiano italiano di una bambina picchiata a scuola, “la femminuccia”) ma probabilmente soprattutto per ragioni di spazio.