Quando siamo in giro a fare quel “format” del Post che abbiamo chiamato I giornali, spiegati bene – una rassegna stampa usata come occasione per raccontare le dinamiche e scelte dei quotidiani – ci capita sempre di parlare molto dei titoli e di come vengano costruiti. I titoli sono oggi più che mai – da una parte per la nostra inclinazione a leggere frettolosamente e dall’altra per la prevalenza di post, tweet e anteprime nelle “diete informative” – il formato principale di informazione giornalistica che assorbiamo. Possiamo tranquillamente dire che la gran parte della nostra informazione su quello che succede è costituita dalla lettura dei titoli, e da lì si costruisca la nostra conoscenza della realtà. Anche per questa ragione, tra l’altro, è ulteriormente fragile l’argomentazione di quei giornalisti che di fronte all’ingannevolezza o falsificazione nei titoli rispondono “ma nell’articolo è spiegato”: in realtà l’articolo è un accessorio del titolo e giornali e titolisti sanno benissimo che è il titolo a passare e ad attecchire soprattutto.
È quindi utile e importante conoscere e individuare i fattori che concorrono alla scrittura di un titolo, e che possono renderlo fuorviante o mendace (vedi questi esempi tra i più grossi e recenti): il titolo di un articolo – che è scritto da persone diverse dagli autori dell’articolo, le quali in teoria ne hanno capacità e competenze – essenzialmente deve ottenere l’attenzione e l’interesse del lettore rimanendo una efficace e fedele sintesi del contenuto dell’articolo o della sua notizia più importante. Ma i tempi faticosi e le depravazioni del giornalismo contemporaneo – in Italia più estesamente che altrove – fanno sì che si investa soprattutto sulla prima cosa – ottenere l’attenzione – affidandola a sensazionalismi, curiosità frivole o terrorismi, trascurando la fedeltà alla notizia principale o ai fatti stessi.
C’è poi un terzo criterio di composizione dei titoli – anche questo molto italiano: altrove ci si diffonde in lunghezze maggiori – che è quasi rassicurante nel suo essere legato a ragioni eterne, concrete, e ineludibili come le leggi della fisica: ed è lo spazio. La gran parte dell’abilità del titolista è far stare la cosa che abbiamo detto nello spazio angusto che ha a disposizione: il risultato – affascinante, se ci pensate – è che la nostra conoscenza di quello che succede nel mondo e intorno a noi finisce per essere determinata dai confini di spazio che il titolista ha a disposizione (in barba a quei teorizzatori della mutazione del linguaggio nata coi tweet e gli sms a lunghezza limitata: il linguaggio della brevità estrema esiste da quando esistono i titoli dei giornali).
È la ragione che spiega molti dei tic del titolismo che leggiamo ogni giorno: l’uso dei virgolettati inventati che permette di titolare con una cosa breve (e “grossa”) anche se non l’ha mai detta nessuno; l’inflazione di termini brevi o sintetici usati solo nell’italiano dei titolisti come “choc”, “killer”, “giallo”, “stop”, “star”, “altolà”, “dietrofront”, “incubo”; l’uso di nomi di battesimo per personaggi famosi; il fantasioso formato dei titoli che iniziano con “se, “e”, “io,“; la preferenza per “web” su “internet”, di “colle” su “Quirinale” e di “ira” su qualunque diversa emozione (dico sempre che la frequenza di “l’ira di Napolitano” si doveva alla lunghezza del suo cognome, e che se controllassimo troveremmo probabilmente che Ciampi abbia beneficiato di una varietà di reazioni assai più ricca).
Tutto questo lungo prologo e spiegazione per mostrarvene un esempio illuminante che ha riguardato ieri la stampa americana, invece, e dei suoi effetti sui lettori. La notizia era che il rapporto Mueller sulle ingerenze russe nelle elezioni statunitensi sembrava scagionare Trump: anzi, appunto, la notizia era che la sintesi del rapporto diffusa dal Dipartimento della Giustizia sembrava scagionare Trump. Ma a questa differenza tra il documento completo e la versione del Dipartimento si sono affidate le speranze degli oppositori di Trump che il rapporto sia più severo della sua sintesi pubblicata. E quindi un serio ed esperto giornalista come James Fallows si è meravigliato di come la notizia era stata data diversamente sul New York Times di carta e sul sito del Washington Post, intendendo criticare il titolo del primo, in effetti sbrigativo e non corretto.
Two front pages worth comparing. pic.twitter.com/RXZLU1WHT6
— James Fallows (@JamesFallows) March 25, 2019
E però Fallows si rendeva conto successivamente che sul sito del New York Times il titolo era diverso e più completo ed esatto. Lo stesso del giornale di carta, ma con una virgola e due parole in più, che adesso ci stavano, persino larghe.
2/2, Also compare: NYT online h/t @BasilNSybil pic.twitter.com/eLJa798EHj
— James Fallows (@JamesFallows) March 25, 2019
E anzi, il titolo in prima pagina del Washington Post di carta era caduto nella stessa errata semplificazione di quello sulla prima pagina del New York Times di carta.
3/4 And, closing the loop, here are *print* front pages today of WP, and NYT. pic.twitter.com/ooPSzASiIM
— James Fallows (@JamesFallows) March 25, 2019
E infine, un successivo aggiornamento della homepage del New York Times, eliminava del tutto il titolo, consegnando a un titoletto secondario una valutazione più estesa e articolata della notizia, mostrando ulteriormente quanto sia difficile ridurre la complessità delle cose – e la nostra comprensione della realtà – allo spazio di una riga o due. E come pure un giornalista esperto come Fallows avesse sospettato inizialmente una diversa scelta “politica” dei due giornali su come informare i propri lettori, quando invece era solo ancora una questione di spazio ad aver determinato due modi contrapposti di dare ai lettori un’informazione.
4/4 And here are online home pages, as 830am EDT Monday.
For the record. pic.twitter.com/lDUjxVWBmC
— James Fallows (@JamesFallows) March 25, 2019
“Ho solo bisogno di spazio” diceva Charles Grodin sull’orlo di una crisi di nervi in una vecchia commedia americana.