Se ci dividiamo tra tifosi e nemici del Foglio per proprio gusto, io mi dichiaro tifoso e “ce ne fossero” senza un attimo di esitazione: perché non solo è il primo giornale con cui ho collaborato con continuità, dove ho imparato un sacco di cose e conosciuto persone tuttora preziose, ma è un giornale in cui già allora mi fu ampiamente permesso di scrivere cose critiche nei confronti delle linee prevalenti, che lo permette a molti, e che ancora oggi ospita molto più giornalismo ben fatto che contraddizioni e ciarlatani (che ci sono, entrambi). E per tagliare la testa al toro, la parte di cose discutibili del Foglio lo tiene sempre tre spanne al di sopra di tutto il resto dei quotidiani italiani e dei loro, di ciarlatani.
Ma questo è il modo stupido di affrontare la discussione sui contributi pubblici ai quotidiani. I modi giusti sono invece altri due. Uno riguarda il Foglio e la legittimità dei contributi che riceve, stando alle regole esistenti e approvate dal parlamento: fino a che queste regole esistono, tutto quello che c’è da discutere è se le regole siano soddisfatte da chi riceve i contributi. Al Foglio dicono di sì, e di farlo giudicare da un giudice, non da un ex ministro palesemente insofferente del Foglio e da un partito poco avvezzo ad apprezzare la libertà di informazione. La questione è tutta lì: e se dovessimo guardare agli scandali etici, abbiamo una democrazia che sta sovvenzionando con un sacco di soldi un giornale come Libero che avvelena i pozzi della democrazia e della convivenza civile ogni giorno, “coi soldi nostri”. Ma vale per Libero la stessa cosa: se le regole sono rispettate, non si può prendersela con loro per essersi adattati alle regole.
E questo ci porta alla seconda cosa su cui riflettere: ovvero il senso delle sovvenzioni pubbliche ai giornali. Sappiamo quale sia, questo senso? Al di là delle nostre antipatie per questo o quel giornale? La prendo alla larga ma arrivo presto al punto.
Le democrazie funzionano solo se bene informate, se no funzionano male: se non lo sono andiamo a votare senza sapere le cose, e votiamo cialtroni e banditi che ci hanno spacciato balle, direttamente o attraverso mezzi di informazione e social network spacciatori di balle. Per essere bene informata, una democrazia ha bisogno di mezzi di informazione affidabili, liberi, seri. È la ragione, per esempio, per cui esiste il servizio pubblico radiotelevisivo, estesamente sovvenzionato. Se tutto è affidato solo al mercato, le cose possono riuscire a funzionare soltanto in presenza di:
– una cultura generale che crea domanda per un’informazione autorevole e attendibile
– un mercato florido che generi le risorse economiche per rendere indipendenti i mezzi di informazione
(dove dico indipendenti, intendo indipendenti da qualsiasi condizionamento, compreso quello dei lettori, che oggi governa molti scadimenti di qualità del giornalismo).
Ecco, oggi in quasi tutto il mondo manca la seconda cosa, e in molti posti – Italia compresa – manca la prima. In un business in declino come quello dell’editoria dei giornali, e in un paese che non premia con lettori o investimenti privati la buona informazione, la libertà di fare informazione libera e accurata è eventualmente affidata all’iniziativa di editori ricchi che decidano di perderci dei soldi. Cosa non facile da trovare, e se ci pensate nemmeno rassicurante: non dovrebbe funzionare così. E qui interviene il finanziamento pubblico: che assimila la buona informazione alla buona amministrazione della giustizia, alla buona educazione scolastica, al buon servizio sanitario, ai buoni trasporti. Tutte cose gestite o sovvenzionate dallo Stato, e delle quali – ripeto – l’informazione non è inferiore per importanza nel salutare funzionamento delle nostre società.
Il problema nasce dal fatto che i criteri di servizio pubblico da definire per l’informazione sono molto più sfuggenti e meno condivisi – soprattutto in questi folli tempi di partigianerie persino sul tempo che fa – di quelli degli altri servizi elencati (e che a loro volta conoscono ultimamente divisioni e pretese di ridiscussione faziosa e partigiana). Non esistono degli standard credibili di “qualità di servizio dell’informazione” che non siano arbitrari (io li so i miei, e farebbero togliere sovvenzioni a diversi giornali: ma non credo che i lettori di quei giornali sarebbero d’accordo; eccetera); non esiste una misurazione dell’accuratezza convincente e universale; insomma, non si può tirare una riga sull’informazione corretta, senza diventare una dittatura, illuminata o perversa che sia.
(pensate a come si litighi ogni giorno persino sulle scelte dell’unico servizio pubblico ufficiale esistente, quello della Rai).
La conseguenza di questa riflessione è che non si possono premiare con aiuti pubblici solo alcuni mezzi di informazione, malgrado questo sia in teoria buono per l’informazione e la democrazia. E però rimane il problema che nel sistema economico attuale la buona informazione tende a diminuire o scomparire: quindi l’ipotesi potrebbe essere “sovvenzionarla tutta” per sovvenzionare anche quella buona, a prescindere da contenuti di qualità. Ogni testata giornalistica registrata, per esempio, potrebbe avere estesi sgravi fiscali sulla produzione e sul costo del lavoro: in quanto “mezzo di informazione”, avallando di fatto l’idea che l’informazione sia importante e buona di per sé.
(idea che non condivido).
È una tesi con un suo senso: l’obiezione è che questo premierebbe sia la buona che la cattiva informazione e userebbe molto denaro pubblico per favorire la diseducazione e l’inganno dei cittadini, ma si potrebbe dire che sia meglio una ricca informazione sia buona che cattiva rispetto a nessuna informazione. È un argomento che ha anch’esso una sua validità, ma non mi convince per questo: sono piuttosto convinto che un finanziamento che non stabilisca criteri di qualità del servizio porti inevitabilmente a premiare invece la quantità e a un livellamento verso il basso. Ogni prospettiva di ricavo economico basata solo sui numeri senza una domanda di qualità finisce per essere un incentivo alle quantità (si pensi a internet e al meccanismo della pubblicità via click e visualizzazioni: è stata una nuova fonte di ricavo e sostentamento dell’informazione, e a cosa ha portato?): in questo caso è facile immaginare – se sovvenzionate a fronte di un certificato e fattori numerici – più testate registrate, più articoli prodotti, più dipendenti, più [inserire qualunque fattore di aumento delle sovvenzioni] senza nessun incentivo sulla qualità del servizio, anzi a scapito della qualità del servizio. Proprio come è avvenuto finora con la pubblicità via click, che è diventata esattamente questo: un contributo (privato) completamente indipendente dal mezzo che lo riceve e dai suoi contenuti. Ha premiato un’informazione di qualità? Ha creato elettori più consapevoli?
È un problema molto interessante e molto importante, a prescindere dalla sua soluzione, ammesso che ci sia: io credo che quella dei contributi pubblici lo sia meno di quella del mercato e di una paziente e benintenzionata creazione di una domanda di buona informazione (molto paziente, se ci guardiamo in giro: lo so). Credo che affidarsi al contributo dei lettori sia più promettente che affidarsi al contributo pubblico: non perché i lettori siano particolarmente avveduti, ma perché sono più disposti a pagare per quello che sentono come effettivamente utile e di valore (in misura minore anche per quello a cui sentono di appartenere, e qui il terreno è più ambiguo). Quello di cui sono abbastanza sicuro è che il sistema attuale genera distorsioni e scorrettezze: nessuna delle testate che ricevono oggi contributi pubblici – buone o cattive che siano – li “merita” di più di molte altre che non li ricevono, e che competono sullo stesso mercato ma con regole sleali. Se chiedete a me: o a nessuno o a tutti.