Da Milano

Un po’ di pensieri di oggi da mettere da qualche parte, o una specie di diario; e anche per rispondere a chi chiede “com’è, lì?”.

1. Da due settimane diciamo al Post una cosa che consiglio a tutti di tenere bene a mente, proprio perché è difficile farlo (l’ho già scritta): su quello che succede in questi giorni ogni singola esperienza è una singola esperienza, ogni singola impressione è una singola impressione. Cambia nel tempo e nello spazio: quello che vedo io ora in un punto di Milano è diverso da quello che vede un altro in un altro punto di Milano, e da quello che vedrò io stesso tra sei ore. La sensazione che ho ora è diversa da quella da ieri, e cambierà più tardi: c’è un ottovolante di cupezza e necessità di sollievo, di ansia e speranza. Quindi la domanda “com’è lì?”, non ha nessuna risposta breve valida. E chi racconta generalizzazioni racconta cose probabilmente non false ma parzialissime.

2. Sono uscito un’ora per raggiungere il carcere di san Vittore, non lontano da casa mia, dove i detenuti sono saliti sul tetto per protestare contro le ulteriori privazioni che si prospettano per loro, e per la sensazione di non essere protetti a sufficienza. In giro per strada c’è poca gente e poche macchine, ma c’è gente e ci sono macchine: nessuna strada è “deserta”. Le persone si stanno un po’ distanti. Ai semafori si formano code di auto. Dovessi quantificare direi che c’è il 40-50% del normale, ma è veramente a spanne e a occhio.

3. Questo scenario sta dentro alla cosa più generalmente spaesante di questa crisi senza precedenti: ovvero che non si manifesti visibilmente e drammaticamente se non nel ristretto degli ospedali o nell’astratto dei numeri quotidiani del contagio. Le cose che si fanno, i gesti, i modi di vivere, sono molto “normali” e molto poco ansiosi. Ci si lavano le mani, si sta molto a casa, si sta distanti nelle code in attesa. Ma niente di tutto questo è inaudito, mai visto. C’è insomma un’emergenza enorme “intorno” e non la si vede, non si riesce a vederla nelle singole cose: se scendo a fare la spesa e risalgo, nel percorso e nelle cose che faccio non c’è niente di diverso da un anno fa. A differenza delle emergenze mondiali che hanno occupato i media negli ultimi decenni, questa non ha le immagini, per esempio: è tutto mascherine, per la disperazione dei foto editor. Sta succedendo una cosa enorme, planetaria, senza precedenti dalla fine della Guerra Mondiale: e intanto andiamo a fare il bancomat, e ci facciamo il caffè.

4. Questa dissociazione non aiuta a dare il senso di gravità e di necessità richiesti e indispensabili: quello che ha cercato di fare Giorgio Gori con il suo video accorato e spaventato di ieri sera è forse il maggiore salto di qualità in questo senso, dopo il video di Piazza Pulita. Fare paura, far capire che le preoccupazioni sono serie, visto che limitarsi a dirlo in maniera seria e neutra non basta, e tutto intorno sembra tutto normale o quasi.

5. Perché è vero che in molti hanno preso sottogamba le istruzioni di cambiare vita; ma è anche vero che molti di quelli che si sono indignati contro le immagini di affollamenti “normali” e noncuranti al Nord, vivono in regioni in cui ci si affolla tuttora normalmente e incuranti, convinti di poter sfuggire a tutto questo, non si capisce perché. C’è in giro – speculare all’incoscienza di molti – un bisogno di rassicurare le proprie ansie facendosi sbirri con gli altri. La violenza e generalizzazione di alcune aggressioni contro chi in questi giorni ha cercato di tornare a casa hanno travolto insieme sia gli scriteriati – che ci sono eccome – che le persone di cui è molto facile immaginare l’impossibilità di rimanere distanti dalle proprie famiglie, dalle persone da curare o accudire, figli, eccetera. Mettersi nei panni, andrebbe fatto più spesso, mentre si è al sicuro a casa propria.
C’è insomma una tentazione “poliziesca” di affrontare le cose che, pur essendo motivata dall’emergenza, ogni tanto sembra suonare assoluta, preventiva e indiscriminata. Mentre la repressione serve a fare funzionare le nostre società, come accessorio inevitabile dell’educazione: non come mezzo primario.

6. C’è, vista da qui, anche la sensazione che in misure diverse molte regioni e paesi del mondo restino in modalità “opossum”, convinti che se stanno attenti a chi entra magari la sfangano. Un po’ come ci si sentiva in Lombardia due settimane fa, o come ci si sentiva a Bergamo subito dopo Codogno, o come ci si sentiva in altri posti del Nord pochi giorni fa. I prezzi da pagare per le restrizioni forzate, in termini economici e di vita quotidiana, sono talmente inauditi che in quelle regioni e paesi si sta acquattati a sperare che passi senza dover intervenire: che Dio ce la mandi buona. Si fischietta. Non sono uno scienziato né uno statistico, e solo per questo mi limito a dire: speriamo non dover dire loro “ve l’avevamo detto”.

7. Se invece ci sottraiamo a questa umanissima tentazione – di sperare che domani, svegliandoci, tutto sia finito, o indirizzato verso la fine – e riflettiamo razionalmente sulla base di dati ed esperienza, temo di concludere che non esistono ragioni per immaginare cambiamenti nel futuro prossimo. Non so cosa voglia dire futuro prossimo, ma con l’andamento dei numeri e col rigore lasco che stiamo applicando, direi che non è realistico che arrivi prima di un mese o due, nel migliore dei casi. Non lo dico per generare preoccupazione o paura, ma perché dovremmo cominciare a regolarci, secondo me, e non solo rinviare tutto di settimana in settimana: e sugli scenari mi pare che – salvo Francesco Costa la settimana scorsa – quasi nessuno stia lavorando. Naturalmente la situazione è imprevedibile, ma almeno immaginare le diverse prospettive realistiche più a lungo termine sarebbe una cosa utile, credo.

8. Infine, si sente un misto di solidarietà e di nervosismo, in giro, online e offline. Non so cosa prevalga, e può darsi che sia quel misto di solidarietà e nervosismo in cui ci muoviamo da qualche anno. E che nulla sia poi in effetti cambiato, malgrado anche qui le percezioni momentanee. Potrebbe essere un’occasione buona, però. Litigare meno, aggredire meno: anche quando pensiamo che gli altri dicano e facciano sciocchezze. Litigare meno, aggredire meno.

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