Martedì il Corriere ha pubblicato una nuova pagina sulle cose del coronavirus firmata da Paolo Giordano: che fa lo scrittore, è uno scienziato, ha riflessioni interessanti e cose da spiegare e aveva già scritto altri articoli nelle scorse settimane che erano molto girati (anche un libro, appena uscito), con curiosità e consenso da parte di molti lettori. Questo invece l’ho visto citato poco, condiviso poco. Il titolo dice “il futuro prossimo non può restare un enigma”. Parla di questo:
Gli occhi sono tutti puntati in alto, verso il picco dei contagi, e noi sembriamo incapaci di sollevarci sulle punte per vedere più in là. Quel che è peggio: le nostre istituzioni non stanno spingendo lo sguardo abbastanza oltre. Con il passare dei giorni il baricentro della responsabilità è stato spostato in varie direzioni, tutte lontane dall’esecutivo: a livello sanitario, sulla tenuta strenua del personale e sulle iniziative delle singole regioni; a livello di diffusione dell’epidemia, sulla condotta più o meno adeguata dei cittadini. Abbiamo sottolineato proprio qui l’importanza del distanziamento sociale e insistiamo ancora di più adesso sulla necessità di mantenerlo, ma mentre noi restiamo buoni e reclusi qualcuno dovrebbe chiarirci le regole della fase successiva.
Gran parte delle persone non vuole leggere queste cose. Lo vediamo anche col Post, dove proponiamo riflessioni e domande simili da una decina di giorni almeno, e raccolgono interessi ma anche palesi fastidi e desideri di leggere altro, spesso manifestati nei commenti sui social network. Poche risposte, poche crescite della discussione. E questo ci sembra un ulteriore problema. Che si somma ai seguenti, che provo a mettere in ordine, per chi è disposto come Paolo Giordano a prenderli sul serio, ma con comprensione e rispetto per gli altri.
La quarantena non serve a “sconfiggere il virus”.
Le scelte della quarantena e delle varie limitazioni alle attività e agli spostamenti sono state indispensabili e stanno evidentemente dando dei risultati, lo si capisce pur dovendo cavarsela con dei dati disordinati, mal raccolti e screditati (persino dai loro promotori). Ci siamo tutti imposti queste regole per attenuare la crescita dei contagi, e la crescita dei contagi ne è limitata. La conclusione ovvia e faticosamente dichiarata da alcuni è che queste regole debbano essere quindi mantenute, non abbandonate. In assenza di altri cambiamenti qualunque scelta di attenuarle significherebbe o una nuova accelerazione dei contagi, oppure una smentita della loro utilità finora.
Invece, è molto passata in giro – per mano delle principali autorità e con la complicità dei media – l’idea che diminuire l’aumento dei nuovi contagi significhi un progresso verso la sconfitta del coronavirus, piuttosto che una saggia e preziosa temporanea ritirata in attesa di rinforzi. Per usare infatti le solite insopportabili ma chiare metafore belliche, ci siamo acquattati nelle trincee e i cecchini non possono spararci: ma sono tuttora al loro posto, i cecchini. Usciamo e siamo daccapo, se nessuno si pone quel problema lì.
Invece, dicevo, c’è una narrazione per cui i risultati della quarantena guiderebbero verso la fine della quarantena. Narrazione di cui fa parte l’ulteriormente equivoca figura del “picco”, proposto come se fosse un evento naturale con un suo percorso autonomo, come un’onda di piena, che sappiamo deve arrivare, facciamo passare e poi è passata. Quello che chiamiamo il picco, invece, se ci pensate è un concetto diverso: per dire, diventa picco solo col senno di poi. Un picco è quel punto che non viene più superato dai punti successivi: che fosse un picco, quindi, lo scopri dopo solo se le cose saranno andate bene. E soprattutto, l’eventuale picco è legato al contesto. Per restare all’onda di piena: se ricomincia a piovere forte ne arriva un’altra. Se ricominciamo ad andare in giro, i contagi e i morti aumentano di nuovo, e quello non sarà più stato un picco.
La domanda ovvia che consegue da queste constatazioni – che già stanno allontanando qualche lettore, lo so – quindi è: che cosa si sta facendo, di più stabile e irreversibile, perché le misure di quarantena smettano di essere indispensabili?
Chi se ne sta occupando?
È una domanda che non sembra farsi nessuno, tra i responsabili della gestione dell’emergenza. E allora da qualche tempo gliela stiamo facendo noi: il Post, ieri molti scienziati sul Sole 24 Ore, Paolo Giordano l’altroieri con queste parole, altri sparuti.
La «riapertura», anzi le riaperture dovranno quindi avvenire in itinere, in qualche punto della curva nazionale dei contagi, o delle singole curve regionali. Ma in quale punto? Cosa dobbiamo aspettare e perché? E quanto è attendibile un grafico che tiene conto forse di un decimo della reale popolazione infetta? Anche immaginando di portare gli incrementi giornalieri vicino allo zero, si porrà poi il problema delle nuove minacce di epidemia provenienti dalle linee di trasmissione carsiche, oppure dall’estero.
Il problema è che non si sa nemmeno bene a chi farla, questa domanda. Io vorrei farla personalmente, e ci ho pensato, magari sapete aiutarmi: chi è in Italia il responsabile dell’emergenza coronavirus? quello che risponde della strategia italiana? quello che dice agli scienziati firmatari dell’appello qui sopra se le cose che chiedono si faranno o no? Il capo del governo “ci mette la faccia”, come dicono quelli, e questo è apprezzabile: ma ce la mette per comunicare misure e decreti, e provare a tirarci su di morale. Di altro non si è mai occupato. Sulla strategia e le questioni scientifico mediche non ha mai comunicato niente, né ha lasciato la parola a un eventuale dottor Fauci accanto a lui, sottolineando anzi spesso che lui di queste cose ne sa poco e se ne occupano i tecnici e gli esperti. Ma quali? Chi è il capo? C’è un capo della protezione civile, il cui unico ruolo sembra aggiornare ogni giorno sui famigerati dati in cui lui stesso non crede: di certo ha impegni operativi importanti ma non ha mai comunicato una strategia. Chi è in charge? Chi decide come ne usciremo? È una figura così assente, che molte decisioni strategiche sono in mano alle autonomie dei presidenti di Regione, molto in ordine sparso e con le grandi libertà stabilite dalla legge. Così in ordine sparso, che il presidente della Lombardia da due giorni è criticato da alcuni importanti sindaci della Lombardia, e li ha già mandati a quel paese.
Ma credetemi, l’impressione seguendo le cose e parlando con gli staff è che i responsabili delle regioni sappiano ben poco della parte scientifico-medica della questione, e si limitino a gestire meglio o peggio la situazione contingente e proteggere la propria credibilità. Ieri sera è girata questa candida rivelazione del governatore della Georgia che dichiara di avere appena scoperto che si può essere contagiati senza avere ancora mostrato i sintomi: e le impressioni a volte qui sono simili, sull’aggiornamento e la preparazione dei politici, che si mettano le mascherine o no.
Quanto ai responsabili scientifici più o meno coinvolti, il massimo di attenzione al tema della strategia è arrivato da qualche giorno in alcuni sparuti interventi di Walter Ricciardi che sono sembrati proporre un abbozzo di percorso, ma non si capisce a chi venga proposto: molti “dobbiamo fare” finora non concretizzati in nessuna informazione che dica se qualcuno stia facendo qualcosa e cosa in questo senso. Chi “debba fare”.
Insomma, potessi avere magicamente l’attenzione di qualcuno per rispondere alla domanda, non saprei a chi farla.
Cosa si sta facendo perché le attuali misure di quarantena smettano di essere indispensabili?
Di cosa stiamo parlando
Naturalmente non siamo noialtri a poter rispondere alla domanda: e però leggendo e seguendo le cose ormai in molti sembriamo esserci fatta un’idea già più robusta di quelle di alcuni presidenti di Regione o ministri del governo. Ci sono approcci già avviati o comunque discussi in molti paesi del mondo e anche in laterali dibattiti italiani, che con modalità ed equilibri diverse coinvolgono:
– una massiccia e capillare analisi di esami – i tamponi innanzitutto – per individuare i contagiati (adesso se ne fanno molto pochi)
– una organizzazione coerente e omogenea dei dati e della loro elaborazione e valutazione (adesso ogni regione conta un po’ a modo suo e mancano tantissimi pezzi)
– la creazione di strutture sanitarie molto più capaci e adeguate alla gestione del covid-19
– una politica radicale di individuazione dei diversi casi (contagiati, guariti, soggetti a rischio, prossimi ai contagiati, eccetera) che permetta trattamenti distinti che possano andare dall’isolamento fino all’attenuazione di alcune limitazioni
– un conseguente investimento in strutture capaci di permettere la quarantena dei contagiati o l’isolamento dei più vulnerabili
– una struttura centrale che abbia il potere e la capacità di gestire e adattare in modo organizzato una strategia basata su questi interventi
Non si vede in Italia nessuna autorità deputata che stia costruendo un progetto intorno alla combinazione di questi o altri approcci. Se qualcuno lo stesse facendo di nascosto e senza informare il paese sarebbe già da rallegrarsene, certo: ma mi sembra implausibile, e soprattutto poco saggio.
Le responsabilità, le inadeguatezze
Le informazioni che incontrano maggior fastidio e desiderio di rimozione da parte di tanti di noi sono quelle che riguardano gli sbagli e le inadeguatezze nelle scelte e decisioni prese finora dalle “autorità competenti” (che non c’entrano niente con i comportamenti e i funzionamenti eroici delle strutture sanitarie esistenti). È comprensibile: abbiamo un gran bisogno di restare convinti che chi decide sa quello che fa, e abbiamo un gran bisogno di dirci che i sacrifici che stiamo facendo sono parte di una strategia per smettere di farli, e non si limitano “soltanto” a salvare vite ogni giorno.
Questo genera reazioni svogliate e a volte persino risentite di fronte alla messa in discussione di quello che le “autorità competenti” stanno facendo. In molti abbiamo voglia di dire “non disturbate il manovratore”: è un’idea che ho io stesso, ma che ho avuto con maggiore serenità fino a un paio di settimane fa. Poi ha cominciato a sembrarmi più pericolosa che utile. Perché il manovratore – se c’è – ha bisogno di essere più convincente e mostrare che sta manovrando qualcosa. E se da una parte nessuno di noi vuole complicare la vita al manovratore – fosse anche il più scarso, è il manovratore – dall’altra qualcuno di noi deve pure fargli arrivare qualche consiglio e impressione da qua fuori, dal mondo, e segnalare al manovratore cose che non sta vedendo, che non sta leggendo, che non sta ascoltando. Che non sta guardando, probabilmente.
O che non vuole guardare, sperando che non si noti. Beh, si nota.
E vale anche per i comprensibili arroccamenti e risentimenti di molti che non vogliono sentirselo dire, che qualcosa non va: che si traducono per esempio nei tic “gli altri paesi non hanno fatto meglio” o “non accettiamo lezioni” quando compaiono analisi che spiegano limiti ed errori di alcune scelte italiane (ieri El Pais titolava un articolo “dobbiamo evitare che succeda come in Italia”, grossomodo).
E non c’è nessun desiderio polemico in queste critiche, anzi: è chiaro che a differenza di tempi di pace, i manovratori non sono sostituibili in questo momento e non vanno indeboliti. Vanno rafforzati, e va chiesto loro di non arroccarsi in difese pericolosissime di scelte sbagliate fatte finora (è già successo). Dire “sono stati fatti questi errori, si stanno facendo questi errori” oggi serve a dire “facciamo le cose meglio e diversamente”, serve a dire “ripensiamo tutto”, serve a dire “le cose non si risolveranno da sole”.
Ma serve anche a far capire ai tanti desiderosi di non sapere, di fidarsi e basta, di non “complicare le cose”, che errori grossi con conseguenze gravi sono stati già fatti e non sono impensabili per il futuro. Quello che non vogliamo andare a disturbare oggi può generare stragi e catastrofi domani. Dirlo serve.
Serve a dare delle risposte alla domanda e a tutte le domande.
Altrimenti c’è il progetto tanta pazienza
Voler eludere la domanda è comprensibile e umano per molti di noi. Per le “autorità competenti” no. Lo stanno facendo, scantonando nel migliore dei casi, alludendo a pretesi “attacchi politici” nei peggiori, vecchio trucco da tempi di pace insopportabile in questa situazione.
Una risposta però c’è, che dia senso e rivendichi l’attuale strategia che in forme diverse sembra seguita dalle regioni più travolte e dal governo nazionale. Ed è questa: “stiamo pensando di continuare a prendere tempo più possibile, limitando i danni quando si riesce, sperando che salti fuori una terapia che aiuti a limitarli, o che avvenga qualche altro accadimento imprevisto (magari, il caldo?), per tirare in lungo con qualche limitato e alterno cambiamento delle regole di quarantena fino all’introduzione di un vaccino, tra un anno o più: nel frattempo, la gestiamo giorno per giorno, settimana per settimana, e guardiamo se in qualche altro paese si fanno venire delle idee che ci possano essere utili”.
È il progetto tanta pazienza: vi sembrerà assurdo, ma se vi guardate in giro è quello che stiamo applicando.