La polizia sui social network

In questi giorni ho avuto l’impressione che molte persone – dai capi di stato a ognuno di noi – che sono intervenute, o hanno formulato pensieri, sulle limitazioni imposte a Trump dai social network, abbiano spesso buone intenzioni ma reazioni molto sommarie e improvvisate, che si fermano prima di riflettere davvero sul problema. È normale, secondo me, perché credo non ci siano soluzioni realistiche (avevo spiegato meglio queste cose qui): e quindi tutti diciamo “così non va bene” e ci fermiamo lì prima di chiederci come dovrebbe andare, oppure ipotizziamo generici e vaghi concetti molto poco concreti e sviluppati (“dovrebbe occuparsene lo Stato!”). Oppure pretendiamo “regole chiare e certe” su un terreno – i reati di opinione, i limiti della libertà d’espressione – su cui non abbiamo stabilito regole chiare e certe per millenni, per la semplice ragione che è un terreno straordinariamente ambiguo e scivoloso: e su cui discutiamo e litighiamo quotidianamente già “fuori da internet” (pensate a quante volte si grida alla censura, in ogni cantuccio), figuriamoci se ci possiamo trovare unanimi su internet dove le espressioni e opinioni sono formulate pubblicamente a milioni al secondo.
Così ieri sera, in mezzo a una ricca conversazione seguita alla limitazione dell’account del quotidiano che si chiama Libero (limitazione le cui ragioni sono al momento del tutto ignote), ho provato a formulare una domanda che potesse essere costruttiva, oppure confermare – nell’eventuale assenza di risposte convincenti – la mia ipotesi che non esistano soluzioni realistiche meno deludenti di quella attuale.

Trovate moltissime risposte in coda al tweet: la maggioranza in un modo o nell’altro propone di conservare la condizione attuale in cui le piattaforme decidono e intervengono, comunque declinando e rispettando le leggi. Ma non era un sondaggio e non è importante la maggioranza, ma piuttosto capire se siamo capaci di formulare prospettive concrete e realizzabili. Confesso che a me continua a parere di no, ma se lo diventeremo sarà perché ne discutiamo seriamente e proponendo idee e non solo insoddisfazioni generiche, sbadate o ingenue (come la formula “decisione problematica” che oggi i giornali attribuiscono con grande enfasi a Merkel: pensa tu che intervento).

p.s. per facilitare le riflessioni, aggiungo quella che mi sembra una delle principali fallacie di alcune risposte: ovvero il confondere il ruolo dell’amministrazione della giustizia con quello della polizia. Sono due cose diverse, la prima implica tempi lunghi di giudizio e condanna o assoluzione, la seconda interviene comunque con ampia discrezionalità appena vede pericoli o reati, potenziali o palesi. Sospendere l’account di Trump, per esempio è assimilabile alla seconda cosa: e la maggior parte di quello di cui parliamo – se vogliamo stare a questi paragoni – è più un lavoro di polizia che giudiziario e dobbiamo decidere se va fatto e chi lo fa in base a quali criteri.
Altre fallacie che circolano sono il presupposto che si possano definire chiaramente e universalmente le “cose false” o che si possa prevedere con certezza ed esattezza cosa possa essere “pericoloso” per qualcuno, ma trovate molto nelle risposte.

Abbonati al

Dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo.

E dal 2010 il Post ha fatto molte cose ma vuole farne ancora, e di nuove.
Puoi darci una mano abbonandoti ai servizi tutti per te del Post. Per cominciare: la famosa newsletter quotidiana, il sito senza banner pubblicitari, la libertà di commentare gli articoli.

È un modo per aiutare, è un modo per avere ancora di più dal Post. È un modo per esserci, quando ci si conta.

Abbonamento mensile
8 euro
Abbonamento annuale
80 euro