Femministi a parole

Da molti anni si sono ormai consolidate le conclusioni di un dibattito sulla sinistra divenuta “più conservatrice” di un tempo: il dibattito è ricco e la mia semplificazione sbrigativa, ma diciamo che a questa conclusione hanno contribuito due fattori. Il primo è che alla fine del secolo scorso i partiti e i leader progressisti del mondo – eredi di un’idea rivoluzionaria o riformista, ma tendente comunque al cambiamento e alla sovversione delle cose – avevano raggiunto molti obiettivi di quel cambiamento, molti risultati di progresso civile e sociale, molte posizioni di governo delle cose: cose che quindi in gran parte non erano più da cambiare radicalmente, ma da conservare e migliorare ancora. Il secondo fattore è che da allora sono cresciute molte forze opposte e reazionarie a destra che si sono impossessate – a modo loro – delle predicazioni sovversive, mirando ad abbattere quei risultati e obiettivi raggiunti e approfittando dei limiti e insoddisfazioni delle nostre società progredite per proclamare fallite le intenzioni progressiste stesse e annunciare rivoluzioni.

In Italia, per circoscrivere, a dirsi rappresentante del cambiamento è stato in questi decenni il centrodestra – berlusconiano o leghista, o postfascista ora – oppure il M5S. Entrambi predicando la distruzione dell’esistente. A opporsi a queste intenzioni è rimasto invece il maggiore partito progressista, che ha quindi nei fatti assunto posizioni tecnicamente conservatrici: conservare non è buono né cattivo, dipende da cosa si vuole conservare.
Dove sto andando, con questo prologo un po’ generico e generale?

A parlare della crisi all’interno del PD creata dalla scelta di inserire un gruppo di ministri tutti maschi nel nuovo governo. Che non è una svista, o un accidente – benché ci siano sempre circostanze accidentali che influiscono sulle cose – ma rappresenta piuttosto fedelmente una situazione esistente e palese: il PD è un partito maschio e maschile, molto erede del maschilismo di sinistra del secolo scorso, e disattento ai problemi sollevati da esserlo. Ministri a parte, è il partito di Zingaretti e di Bettini, è un partito che non sta promuovendo donne e per cui le donne non parlano quasi mai: benché ce ne siano molte in ruoli formalmente rilevanti – per esempio nella segreteria – senza che nessuno se ne possa accorgere, meno che mai loro stesse. Perché è maschio di una cultura maschile novecentesca il pensiero che governa anche le migliori intenzioni, in questo partito.

La crisi di questi giorni è rappresentativa di questo, ma si spiega molto con l’aver fino a oggi celebrato – per le ragioni dette sopra – l’inclinazione conservatrice del partito: con l’aver ammirato e apprezzato le sue leadership e le sue posizioni che ancorassero a terra valori civili e democratici attaccati dai “barbari” distruttori, che fossero il centrodestra “delle Libertà” o il M5S della scatoletta di tonno. Il partito della serietà e delle istituzioni per forza di cose: ma per ancorare servono ancore – le avete presenti, le ancore? -, serve quell’ordine di idee, serve quella cultura, servono quelle persone. Che oggi sono leader di formazione di partito, novecenteschi, che hanno nell’immobilità e nell’attaccamento alle tradizioni democratiche e sociali il loro punto di forza e di attrazione, mentre tutto intorno si cerca di stravolgere tutto.

Solo che non sono un partito e una cultura così a poter rappresentare anche – nello stesso tempo – le richieste di progresso civile cresciute a loro volta in questi anni: non è un caso che l’intervento più avanzato e rivoluzionario in questo campo fatto dal PD siano state le unioni civili, ottenute da un governo guidato invece da una passeggera leadership del PD rivoluzionaria e persino “rottamatrice”, con tutti i suoi disastri. Non è nemmeno un caso che i partiti che si sono detti in questi anni rivoluzionari siano oggi capaci di promuovere le donne di più di quanto sa fare il PD (guardate chi è l’unica donna leader di partito).

C’è insomma una contraddizione tra il dare priorità a posizioni conservatrici in termini di difesa delle istituzioni e delle pratiche civili e politiche della fine del Novecento, e il dover rappresentare – per definizione – il progresso: che ha ancora bisogno di procedere. Di progredire.
Non è una contraddizione irrisolvibile: anzi, deve essere risolta, da un partito che voglia essere progressista anche nel 2021. Ma bisogna cambiare qualcosa nelle teste, o cambiare le teste: altrimenti, tre ministri maschi, e poi tentativi di metterci delle pezze paternalistiche e maschie dicendosi femministi, concedendo, tutto già visto, tutto già prevedibile. Un partito conservatore.

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