I giornali pretesi

Se vi fermate a pensarci, è strana la vivacità – l’aggressività, spesso – con cui giudichiamo, protestiamo, pretendiamo, ci arrabbiamo, rispetto a come vengono fatti i giornali da chi li fa. Certo, spesso vengono fatti oggettivamente male, rispetto a quello che condividiamo debba fare un giornale: ma questo capita con molti altri prodotti. Ci sono libri oggettivamente mediocri, film decisamente brutti, cocomeri sicuramente cattivi, scarpe indubbiamente scomode: oppure soggettivamente, ognuna di queste cose, come è spesso soggettivo il giudizio che diamo su questa o quella scelta di un giornale. Eppure su nessuno di tutti questi altri prodotti manifestiamo così frequenti indignazioni, soprattutto sui social network. E per giunta, spesso senza nemmeno averlo pagato, il prodotto giornale con cui ce la prendiamo. Come se dopo aver accettato di farci mettere un campione di profumo sul polso da una commessa sulla soglia della profumeria, la coprissimo di insulti perché il profumo è cattivo, e poi tornassimo a casa per scriverne peste e corna su Facebook, e si devono vergognare!

Certo, che c’è una ragione di questo strano strabismo dell’indignazione, anche se quasi mai i lettori dei giornali ci riflettono: la ragione è che siamo abituati a pensare che la buona informazione – quello che ci danno i prodotti giornale – sia un servizio pubblico. Dovuto.
Non lo paragoniamo a un cocomero, lo paragoniamo a un ospedale, o a un autobus. Se non funzionano protestiamo: ce lo devono.

E abbiamo metà ragione e metà torto. La metà ragione è che la buona informazione è un servizio pubblico, come la sanità, come i trasporti, come la scuola. Nel senso che una comunità democratica non può funzionare senza: è anzi più essenziale al funzionamento della democrazia degli altri servizi citati. Senza, la democrazia proprio non funziona, e genera disastri. Se andiamo a votare – l’esercizio della democrazia – con informazioni sbagliate, il risultato è pessimo: votiamo aspettandoci cose che non succederanno. È successo in momenti famosi e importanti della storia, ma anche in tempi recenti, che le persone andassero a votare “democraticamente” dopo aver ricevuto una tale quota di informazioni false e di propaganda ingannevole da portare a un risultato antidemocratico o comunque pessimo per il bene comune e per le aspettative nutrite da informazioni false. La buona informazione è il primo dei servizi pubblici: tanto che il termine “servizio pubblico” in Italia è usato con maggiore frequenza per definire quello offerto dalla televisione. Per informare.

Bene: cosa fa in genere lo Stato rispetto ai servizi pubblici? In parte se ne fa carico direttamente (lo fa anche con l’informazione, appunto: con la Rai), e in parte li affida ai privati, sostenendoli e sovvenzionandoli perché ritiene che quei servizi – sanità, scuola, trasporti – debbano essere garantiti e con degli standard di qualità, e se i privati concorrono a garantirli è utile che lo Stato li aiuti, in questa loro parziale supplenza. In ciascuno di questi campi, però, lo Stato stabilisce degli standard di qualità del servizio, che tuteli i cittadini: i treni devono essere sufficientemente puntuali, devono coprire tutte le tratte necessarie, gli ospedali privati devono garantire alcuni servizi sanitari essenziali e la tutela della salute, le scuole private devono offrire risultati di istruzione verificabili e all’altezza di quelle pubbliche. Queste cose sono regolamentate. Se gli standard non vengono soddisfatti, da utenti ci arrabbiamo: un po’ perché abbiamo pagato direttamente alcuni di questi servizi, un po’ perché li abbiamo pagati indirettamente con i contributi pubblici. E lo Stato può decidere di annullare le sovvenzioni.

Con l’informazione lo Stato è sempre stato fortunato: è sempre stato un business piuttosto florido, e la sua capacità di sostenersi economicamente attraverso i lettori che pagavano per leggere i giornali e gli inserzionisti che pagavano per avere promossi i loro prodotti, lo ha reso indipendente da necessità di sostegno. Certo, un oligopolio, con soglie di ingresso piuttosto alte – molto più difficile creare giornali che vendere cocomeri – ma un oligopolio con una dimensione sufficiente a garantire una quota di “pluralismo” accettata.

Fino a che non è arrivata internet, che ha schiantato i due modelli di ricavo dell’informazione, per ragioni e meccanismi vari ma piuttosto noti. Il valore della pubblicità è crollato per enorme allargamento dell’offerta, i lettori si sono abituati a leggere le cose gratis (questa è una delle molte ingenuità di alcuni commentatori profani alle dinamiche dell’informazione, che credono che i giornali vadano perdendo lettori delusi: oggi i giornali sono molto più letti di prima, non meno; solo che i lettori in più leggono gratis). E così il servizio pubblico dell’informazione, necessario, si è trovato nelle stesse condizioni degli altri servizi pubblici necessari: ovvero di non essere sostenuto dal mercato. E di essere bisognoso del contributo dello Stato, come certe tratte ferroviarie locali di pendolarismo che funzionano in perdita.

Solo che c’è un problema: provateci voi a stabilire degli “standard condivisi di qualità” per una cosa come l’informazione. Non stiamo parlando di medicina e scienza, né di puntualità dei convogli, né di commissioni di esame e programmi di Matematica. Stiamo parlando di una cosa straordinariamente più sfuggente, che ha coinvolto secoli di riflessioni filosofiche, persino: cosa sia “vero”, cosa sia “la realtà”; per non dire dell’applicazione della libertà di espressione e di opinione; e ora mettete tutto questo – non bastasse – nel contesto partigiano, disordinato e conflittuale dell’informazione di oggi, e nel contesto di sempre dell’importanza politica dell’informazione. Quale commissione, quale regolamento, possono stabilire quale sia l’informazione da sovvenzionare col denaro pubblico “perché fa funzionare la democrazia”, e quale invece non lo faccia?

Non è un problema astratto, eh, né nuovo: anzi. Ce lo abbiamo davanti agli occhi da anni. Quella limitata quota di contributi diretti che lo Stato assegna tutt’oggi a una serie di testate con l’intenzione di “garantire il pluralismo” è in massima parte un enorme fallimento: non si sono mai trovati criteri davvero proficui ed efficaci – è impossibile – e il risultato è che vengono finanziate testate sulla base di criteri che con la qualità di informazione c’entrano in modi del tutto accidentali e per niente condivisi: a volte sì, a volte no, per alcuni sì, per altri no. (altro su questo tema su Charlie di domenica)

Ed eccoci al problema di oggi, e alla metà di torto: i giornali non hanno i soldi per fare buona informazione (generalizzo, naturalmente, come spesso in questo post: c’è chi ci riesce, spesso in piccole misure, casi rari) e quindi la fanno spesso mediocre, con alti e bassi. I lettori ci trovano molte cose mediocri – ci sono, non dovrò ripeterlo io, no? – e le fortune e gli investimenti del passato li hanno abituati a ritenere dovuta una buona informazione: c’entra anche che una volta ce ne accorgevamo meno, della sua qualità, quando non c’era internet, e c’entra che una volta non avevamo tutto questo spazio per indignarci (e questa inclinazione a indignarci). Ma c’entra soprattutto che non puoi far funzionare bene un ospedale se non hai i soldi; e se scopri che un modo per raggranellare qualche spicciolo è fare clickbait, spararle grosse, dare spazio a boxini morbosi e a gallery di 450 foto di conduttrici televisive, finisce che lo fai. Perché funziona, ve lo dico: lo fanno perché funziona, conoscono i loro polli. E sono un’azienda privata non sovvenzionata dallo Stato, non un servizio pubblico come siamo abituati a pensare: con dipendenti che si nutrono, hanno famiglie, e le stesse necessità di tutti. Chi le paga?

Attenzione: io, come immagino molti di voi, sono abbonato a dei giornali. È una condizione che mi dà diritto a lamentarmi del servizio e a criticare, se voglio: ho pagato per un servizio insoddisfacente. Ma posso farlo fino a un certo punto: dopo un po’ se non sono soddisfatto disdico l’abbonamento. Altrimenti me la sono cercata.
Sto dicendo che non sono criticabili le notizie false pubblicate dai giornali e le conseguenze che generano? IO??? No, naturalmente: do per scontato che non siate lettori così occasionali. Penso che ogni conseguenza di una cattiva informazione abbia dei responsabili, in diverse misure, e che debbano fare i conti con se stessi, non con me (lo penso di chiunque di noi condivida una bufala online, in diverse misure). Ma è un giudizio, a volte anche molto severo, non una pretesa: nessun giornale mi deve niente, se non il rispetto della legge. Esattamente come non mi deve niente il produttore di cocomeri cattivi, il ristoratore nel cui ristorante non vado e che mi offre per strada un assaggio di una pizza cattiva che io accetto, e non mi deve niente il regista di una serie tv che non mi è piaciuta.
Non-mi-ha-costretto-nessuno.

Inciso: un’altra ingenuità è prendersela con gli “editori” perché fanno “i loro interessi” di editori, ovvero cercare di tenere in piedi economicamente la loro impresa (è loro, già), come qualunque produttore di olive snocciolate, di bottoni o di biciclette elettriche, e magari persino cercare di guadagnarci. Sono imprenditori, non benefattori, né investiti dallo Stato a darci ciò che riteniamo giusto. Le olive sono cattive? D’accordo, ma non è vietato dalla legge vendere olive cattive.

Vergognatevi, servi! Che fate le olive cattive!

Qual è l’obiezione, quindi? Che i giornali non sono prodotti come gli altri, che svolgono una indispensabile funzione di servizio pubblico? Sono d’accordo, come avrete letto parecchi paragrafi più su: e quindi chiedo, chi lo deve pagare questo servizio pubblico? Al momento si paga da sé, con il contributo di una esigua nicchia di lettori volenterosi, con gli spiccioli di pubblicità che riesce ancora a portare a casa facendo titoli esagerati e ingannevoli su cui altri lettori cliccano, con un gran taglio di costi sull’accuratezza e sulla verifica, seminando zizzanie e polemiche che eccitano il pubblico pagante sugli spalti del Colosseo. Se il risultato è che poi esce una notizia su Brunetta che prospetta una bella “tensione nel governo” ed eccita mezzi social network e i commentatori dei programmi tv, fino a che non si scopre che era di un anno fa, è per tutte le ragioni dette: per avere di meglio bisogna farsi venire qualche idea migliore che insultare editori, giornalisti e produttori di cocomeri.

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