– Che hai?
– Sono arrabbiato.
– Perché?
– Perché ho dovuto cancellare un tweet che avevo fatto. Avevo twittato una notizia che non era vera.
– E come mai?
– L’avevo letta in un tweet dell’Ansa. Solo che non era vera, hanno scritto una cosa falsa, disgraziati.
– Eh, lo so, capita spesso. Ma perché sei arrabbiato?
– Perché ho dovuto ammettere che avevo sbagliato, ma è colpa loro, non mia!
– Ok, loro hanno una gran colpa, hai ragione: ma tu dovevi twittarlo per forza?
– Che c’entra?
– Beh, c’entra: puoi decidere se twittare o no una cosa.
– Ma tutti twittano cose!
– Vero, e infatti facciamo circolare un sacco di cose false.
– E non posso mica controllare se le cose che twitto sono vere, non è il mio lavoro.
– Eh, infatti è la ragione per cui esistono i lavori: ognuno fa il suo. Quello di informare invece è di tutti.
– Cosa vuoi dire?
– Che i giornali fanno una cosa professionalmente e assiduamente che però è la stessa che facciamo tutti continuamente, ovvero dare delle informazioni al prossimo. Se uno per strada ti chiede come andare alla stazione, tu glielo spieghi, e se gli dici una cosa sbagliata quello perde il treno.
– Ancora non capisco cosa c’entra.
– Se poi lo rincontri e lui si arrabbia con te, tu gli dici “non faccio mica il vigile urbano!”, seccato, o ti scusi e ti dispiace?
– Hmmm… Forse la prima, lì per lì: però, sì, mi dispiace. In effetti mi sono sbagliato, ma non l’ho fatto apposta.
– Certo. Lui però ha perso il treno: possiamo dire che tu abbia la tua parte di responsabilità nell’avergli fatto perdere il treno?
– Ok, ma aspetta, aspetta: nel nostro caso io gli ho detto una strada sbagliata perché ho guardato su “tuttelestrade.com”. È colpa loro!
– Ci avevi mai guardato su “tuttelestrade.com”?
– Qualche volta, ma è meglio Google Maps, “tuttelestrade.com” spesso sbaglia.
– Davvero? Anche se si chiama “tuttelestrade.com”? Dovrebbe essere il loro lavoro.
– Hmmm, dove vuoi arrivare?
– Alla stazione.
– …
– Dico che ogni cosa che facciamo crea delle conseguenze, e che questa relazione si chiama “responsabilità”. Siamo “responsabili” delle conseguenze di quello che facciamo, in qualche misura, e le misure sono spesso diverse: nei processi per rapina danno una pena più grave a chi ha picchiato il bancario per portargli via i soldi, rispetto a quello che ha prestato la macchina. Ma quello che ha prestato la macchina ha una sua parte di “responsabilità”.
– E se non lo sapeva, per cosa la usavano?
– Gliel’ha chiesta suo cugino condannato per altre dieci tentate rapine, vedi tu. Tu cosa pensi e cosa sai dell’accuratezza dei giornali?
– Scrivono un sacco di cazzate…
– Ok, non solo, ma ti seguo: quindi non è che tu non lo sappia, quando retwitti delle cose. Lo sai, dentro di te lo sai, se ti fermi a pensarci lo sai, che può essere una cazzata.
– Ma se penso così, non twitto più niente!
– Che potrebbe non essere una cattiva idea, tra l’altro: dimmi, che bisogno c’è di twittare una notizia che stanno già twittando molti altri, a cui non aggiungi niente? Perché lo fai?
– È la libertà di espressione! Vuoi vietarmi di twittare? Pensi di poterlo fare solo tu?
– Ci mancherebbe, ma come sai non c’è nessuna libertà che non implichi una responsabilità, oltre che delle limitazioni. Tu sei libero delle tue scelte, se ti assumi la responsabilità delle conseguenze delle tue scelte. Non puoi avere l’una senza l’altra.
– Perché no?
– Perché ci sono secoli di filosofia e giurisprudenza a spiegarlo, e perché se no ci autoassolviamo da tutto. Diventiamo la Casa delle Libertà. come diceva quello.
– Ma stiamo parlando di un tweet.
– Infatti ci sono cose più gravi, ci sono sempre cose più gravi. Il tuo tweet ha avuto piccole conseguenze, probabilmente: ma di quelle sei responsabile.
– Stai cercando di assolvere i giornali…
– Macché, il discorso vale anche per loro, anzi di più: ci sono responsabilità maggiori e minori, e da grandi poteri derivano grandi responsabilità, per citare al solito l’Uomo Ragno. Ma da piccoli poteri ne derivano lo stesso, di più piccole.
– E quale sarebbe il mio piccolo potere?
– Twitter, e i social network, e internet: sei diventato una persona che diffonde, condivide e persino produce informazioni che raggiungono moltissime altre persone molto rapidamente. Che tu non venga pagato per questo non fa nessuna differenza nelle conseguenze: alle conseguenze non frega niente di sapere che lavoro fai.
– Però le persone ai giornali credono più che a me, e i giornali hanno più follower.
– Bravo, vedi che quindi è una questione di quantità, ma non di qualità? Tu hai meno follower, ma non è che tu non ne abbia. Ti leggono, e credono sia vera la cosa che hai scritto. Ok?
– Ok, ma sempre pochi sono…
– Va bene, ora mettiamo che tu, che fai il postino, crei un account su Instagram di cose di postini…
– Io ho un account su Instagram di cose di postini!
– Ah, vedi: e come va?
– Insomma: ci metto le foto degli indirizzi strani che la gente scrive per sbaglio sulle buste e sui pacchi, ha 244 follower finora.
– Beh, non male: secondo me è una buona idea, e può funzionare. E metti che diventano cinquemila, o di più, e con il tuo account diventi un influencer e ti pagano per promuovere certe società di spedizioni…
– Magari.
– E ora hai centomila follower, ok? Sei un giornalista?
– No. Perché? Che c’entra?
– E un giorno leggi sul piccolo quotidiano del tuo comune – letto da tremila persone sbadatamente – una notizia importante, e la ripubblichi sulla tua pagina di cose di postini: e quella notizia però era falsa, e a diverse persone crea dei guai, o dei fastidi…
– È colpa del giornale!
– Daccapo con la “colpa“: io ti chiedo una cosa. Ha creato più guai il giornale a pubblicarla, o tu a riprenderla sulla tua pagina da centomila follower?
– Ma che ne sapevo?
– Beh, ormai dovresti cominciare a saperlo. E infatti lo sai. Lo sai bene che può essere falsa, o sbagliata, passi metà del tempo su Twitter a lamentarti dei giornali. Lo sai. E puoi decidere se pubblicarla o no.
– Ma mica posso verificare tutto! Io faccio il postino!
– Certo che non puoi, appunto. E non puoi nemmeno sapere tutti gli articoli del codice, e infatti non vai a difendere le persone in tribunale.
– Non sono mica avvocato.
– Bravo, e non sei nemmeno giornalista. Però fai le stesse cose che fa il giornalista, e con simili conseguenze: perché sono cose particolari, che facciamo tutti ogni giorno. Comunicare, informare, raccontare cose agli altri. Ogni volta che lo facciamo, cambiamo qualcosa nelle cose che sa chi ci ascolta. Ne siamo responsabili.
– E dovrei fare tutti questi pensieri ogni volta che twitto?
– Se me lo chiedi, sì. Oppure…
– Oppure?
– Oppure twitti meno. Pensi un momento a quanto sia necessario e se ci siano dei rischi, e poi decidi se è il caso di scrivere “è morta questa persona, mi dispiace molto”. Se esprimere il tuo dispiacere, o anche semplicemente “partecipare” dando una notizia – esserci – sia più importante di quanto tu sia certo di quella notizia: può darsi di sì, può darsi di no.
– Che ansia, però.
– Puoi fregartene, se vuoi, e non pensarci. E twittare qualunque cosa tu voglia. Decidi tu, sei libero, davvero.
– Sento arrivare un però.
– Però ne sei responsabile.
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un twittatore
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