(ma sono passati otto anni dalla prima) Quello che per me è mio zio ha pubblicato un piccolo libro formidabile dalla genesi originale: la racconta lui benissimo e non ve la voglio rovinare, ma la necessaria sintesi è che si tratta di una ricerca biografica su un misterioso anno della vita di Arsenio Frugoni – storico illustre e famoso, morto in un incidente nel 1970 -, ricerca condotta dall’autore per decenni per ragioni di storiografia professionale e di relazioni personali. Il libro è formidabile e avvincente per due motivi su tutti, senza dire della qualità della scrittura e dell’esposizione: una è che è un esempio raro di certosina e prudente ricerca storica che suona persino anacronistica per chi ha a che fare ogni giorno – da autore o da lettore – con la sbrigativa e perentoria approssimazione dell’informazione sulle cose; l’altra è che “si legge come un giallo” – definizione inflazionata ma inevitabile in questo caso – e le accuratezze e attenzioni nel dispiegamento delle successive scoperte da parte dell’autore, piuttosto che annoiare o indisporre, conservano l’attenzione e il desiderio di conoscere gli sviluppi, grazie alla condivisione con chi legge di dubbi, cambi di percorso, fragilità o solidità degli indizi, scoperte.
Poi, per fatto ulteriormente personale, mi sono tenuto questo passaggio all’inizio del libro.
La frase “non dare mai nulla per scontato” non suona particolarmente originale come formulazione, ma è invece raramente rispettata nei fatti e nelle vite: ed è cara – nella predica e nella razzola – al Post, quindi mi ci sono trattenuto ma con qualche timore. L’altra metà della “lezione” di Frugoni riferita mi sembrava infatti poter alludere a un’inclinazione opposta a quella che è parte di molte cose che facciamo e che io ho fatto, in modi assai diversi da quelli dell’autore e dello storico, e su cui ho una decennale coda di paglia: “conoscere bene” le cose di cui si scrive è sicuramente distante dallo scrivere quotidianamente di tante cose documentandosene per pochi giorni e a volte per poche ore, e mettendosi – nella loro descrizione – più nei panni di chi non ne sa che in quelli di chi ne sia esperto. Trovandocisi, direi, in quei panni. È un pezzetto di un esteso dibattito sull’alternativa tra la divulgazione e l’approfondimento, tra la chiarezza e lo specialismo, tra la superficialità e l’oscurità. Noi ci siamo buttati sulle prime, io ne ho fatto personali necessità e virtù (il ruolo del deejay) con molte cautele ma anche senso di impostura, raccontandomi alibi alle mie incompetenze.
Ma rileggendo meglio, è scritto «della necessità di conoscere bene i termini e i concetti che si usano, e di non dare mai nulla per scontato»: che è in effetti invece una cosa con cui è più facile riconoscere delle sintonie, trovare dei terreni comuni con chi studia le cose sul serio, e sentirsi assolti, noialtri che cerchiamo di spiegare le cose perché siamo i primi a non capirle.
Comunque, godetevi il libro, è bello.