Sulle scemenze dette dal direttore del Fatto per dipendenza da applauso facile, e sulla ricchezza di attacchi che ne ha ricevuto anche dai suoi colleghi di altri giornali (pure su quelli per cui lavorava prima) aderirei alla linea Ferrara (“basta una pernacchia”) e passerei oltre. Noto solo due cose nelle reazioni: una è che non si è vista mai tutta questa pubblica indignazione quando il medesimo e il suo giornale hanno scritto e fatto cose molto peggiori, più violente e con conseguenze assai più gravi e dolorose per altre persone, rispetto a un insulto volgare e generico a un presidente del Consiglio che non si immagina ne abbia sofferto molto. Anzi, l’insulto libero e sfacciato di domenica è il risultato di decenni di consenso da parte di molti scandalizzati odierni.
L’altra cosa è che dopo appena 36 ore il numero di interventi di altri giornalisti contro un loro collega che ha detto una cosa volgare e offensiva contro il presidente del Consiglio supera di gran lunga quello degli interventi di altri giornalisti contro un loro collega – o direttore – che abbia pubblicato notizie non vere o seminato tra decine di migliaia di lettori informazioni distorte e letture false della realtà, negli ultimi dieci anni: è un mio conteggio a occhio ma su cui mi sento piuttosto sicuro. Per fare solo un esempio tra mille, ci sono molti più giornalisti che hanno criticato in queste 36 ore il direttore del Fatto perché ha detto “non capisce un cazzo” di Draghi, che giornalisti che hanno mai criticato il direttore del Fatto (o il proprio) per come ha raccontato la morte di Imane Fadil. O quella di Noa Pothoven. Eccetera.
La conclusione palese è che tra molti giornalisti non si apre bocca con chi viene meno al lavoro dei giornalisti, ma si protesta se qualcuno insulta i genitori, somma vergogna professionale. Come si dice, “mica gli ha offeso la mamma”.