Strangers on a train

Domenica ho assistito a una scena che per la gran parte di voi sarà ormai familiare, a me stesso ne erano capitate di simili, e di simili ne sento spesso raccontare. Ero su un interregionale piuttosto affollato, seduto su uno strapuntino nell’area di ingresso del vagone con il computer aperto sulle ginocchia, e accanto a me era seduta una signora che avevo appena notato con la coda dell’occhio: a un certo punto una ragazza in piedi davanti a noi le ha chiesto con cortese fermezza di mettersi la mascherina che, ho visto in quel momento, la signora teneva abbassata all’altezza del mento.
La signora, forse sulla sessantina, magra, con una giacca chiara, è stata spiazzata dalla richiesta e ha risposto prendendo tempo.
– Cosa?
– Si metta la mascherina.
– …Perché?
– Perché se la deve mettere.
Ora la ragazza aveva un tono più insofferente e la signora era evidentemente umiliata e seccata: intorno la conversazione aveva attratto l’attenzione dei presenti, compreso un terzetto di capitreno che però non sembravano volersi ancora immischiare.
– Siete dei malati.
Ha detto la signora senza guardare in faccia la sua interlocutrice e tirandosi su la mascherina, ma lasciando ancora scoperto il naso. Io ho pensato che buffo modo di insultare persone preoccupate di diventare malati per colpa sua, ma ho cercato di non immischiarmi.
La ragazza le ha chiesto di alzare ancora la mascherina – nera, di stoffa – a coprire anche il naso. La signora l’ha ignorata. La ragazza si è stufata e si è girata verso i capitreno. Ma nel frattempo un signore alto con un completo, la domenica, che era dal lato opposto della signora rispetto al mio aveva iniziato a ripeterle, con tono di voce sempre più forte e militare, irritato:
– Si-metta-la-mascherina!
La signora, umiliata e furiosa, si era messa invece delle cuffie, e aveva risposto:
– Non sento, ho le cuffie!
– Si-deve-mettere-la-mascherina!
Un’accompagnatrice del signore energico intanto gli dava dei piccoli strattoni e mormorava qualcosa con l’intenzione di abbassare i toni e farlo desistere da quell’escalation, ma era chiaro che lui non avrebbe tollerato di non essere obbedito, sentendosi nel giusto.
A questo punto le persone che seguivano o partecipavano alla scena erano diventate una dozzina, alcune borbottavano che nessun capotreno intervenisse, altre sbuffavano dentro le loro mascherine avendocela con gli uni o con gli altri: una capotreno si è avvicinata alla signora, che adesso stava accusando il suo avversario di averle agitato troppo minacciosamente davanti al viso una bottiglietta di plastica. C’erano molti “come si permette?!” e “come si permette lei?!”, e la capotreno li ha interrotti chiedendo con fermo garbo alla signora di mettersi la mascherina perché lo richiedevano le regole, e che a proteggerla da chiunque la minacciasse ci avrebbe pensato lei.

La situazione si è trascinata ancora per un minuto con toni accesi e vivaci, poi ognuno dei partecipanti ha trattenuto dentro di sé la propria misura di risentimento e collera mugugnando a sprazzi fino all’arrivo alla stazione finale: era come essere circondati da pentole fumanti.
E la cosa evidente era che tutte queste irritazione, polemica, confronto, desiderio di prevalere, furia, avevano perso sin dai primi secondi ogni relazione con il merito della questione: quello che aveva preso ad animare i pensieri, le posizioni e gli interventi di tutti i coinvolti da subito – compreso me che scrivevo sul mio computer sperando che la finissero – non aveva niente a che fare col merito della questione iniziale, con la sicurezza dal contagio, con l’efficacia della mascherina, con l’osservanza o no delle regole, tutti argomenti su cui potevano essere pure comprensibili delle opinioni diverse o su cui si sarebbe potuta sviluppare una discussione eventuale, e persino dei compromessi e delle comprensioni del prossimo (la signora a un certo punto estremo ha accampato una poco credibile asma che la costringeva, a suo dire, ad abbassarsi la mascherina ogni tanto). Ognuno dei coinvolti era mosso dall’affermazione di sé, dall’intolleranza delle rispettive umiliazioni e frustrazioni, dall’insofferenza per alcuni dei presenti, dall’indisponibilità ad “accettare lezioni“, e ricondurre il modo in cui si stava comportando e le cose che stava dicendo al loro senso originario – se glielo aveste domandato – avrebbe avuto probabilmente bisogno di qualche secondo di elaborazione.

E a me pare (lo dicevo meglio qui) che siano questi i meccanismi che muovono le nostre posizioni in tantissime occasioni, in tantissimi contesti, su tantissime scale – competizione, delusione, ricerca di consenso (anche del proprio), umiliazione, necessità di affermazione di sé – e che la relazione di quelle posizioni col merito reale delle questioni che ci rendono combattivi e impegnati sia spesso assai fragile. E mi pare anche che i prevalenti spazi di convivenza contemporanei – i social network – incentivino sempre di più questi meccanismi, questi tipi di sentimenti e di reazioni: sia per chi ne è vittima che per chi pensa di sfruttarli.

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