C’è un meccanismo psicologico e retorico divenuto molto frequente nel dibattito pubblico e nelle relazioni umane, che vale la pena fermarsi a definire per spiegarsi molte delle cose che ci succedono attorno e di quelle a cui partecipiamo.
Cominciamo da una cosa che conosciamo e di cui abbiamo parlato spesso: questi decenni digitali hanno sospinto tutti verso una necessità e un’abitudine al protagonismo, alla partecipazione, a cercarci un ruolo in ogni evento, argomento, discussione, notizia. Le persone corrono a cercare e condividere una propria relazione personale con le cose che succedono e di cui si parla (pensate alle reazioni egoriferite alle morti di persone famose, ma pensate a quasi tutte le dinamiche da social network): ci troviamo, con un abbassamento ogni giorno più disinvolto del senso della misura, a darci un ruolo autoreferenziale rispetto a tutti i temi e gli eventi di cui si parla.
Non è sempre facile, trovare questo modo di “esserci”, di non essere solo osservatori e testimoni delle cose, ma protagonisti: perché gli appigli non sono sempre a portata di mano (quando i talebani entrano a Kabul, quanti di noi hanno una cosa personale, da dire, riferire, su cui spostare l’attenzione? Un’esperienza, una relazione? Una conseguenza che ci riguardi? Molti si riducono a “io l’avevo detto”).
E qui interviene – sempre di più in questi anni – un vecchio strumento della propaganda politica demagogica, che è diventato uno dei meccanismi più usati dalla retorica populista e demagogica ma è traboccato in usi anche più limitati e passeggeri: inventarsi “vittime” delle cose che non ci riguardano abbastanza.
È uno strumento efficacissimo e universale: e, come sappiamo, sul raccontare alle masse di persone che è in atto una persecuzione nei loro confronti e un furto dei loro diritti – ciò che vi appartiene, ciò che eravamo – sono state costruite tirannidi, invasioni e guerre mondiali. Farsi “restituire” legittima ogni appropriazione.
Ma oggi questo strumento – il pensarsi vittime, perseguitati, e alimentare questo pensiero a fini di consenso – ha esteso la sua presenza a mille argomenti quotidiani. La settimana scorsa parlando con Francesco Costa in un incontro pubblico di quelli che facciamo per raccontare giornali e giornalismi, ci siamo trovati a commentare le buffe campagne successive dei quotidiani Fatto e Libero sulla candidatura di Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica. È successo, in quei giornali, che il Fatto abbia promosso una campagna e una raccolta di firme contro la candidatura suddetta, e che Libero abbia promosso una campagna e una raccolta di firme contro la campagna del Fatto. Entrambe le cose sono delle iniziative di marketing commerciale, naturalmente, ma se la prima è allineata con le campagne che hanno creato a suo tempo le fortune del Fatto, la seconda non è un’idea esattamente speculare: non propone infatti che Berlusconi sia invece candidato o eletto, ma di protestare contro la campagna del Fatto, e contro “chi vuole rubarci il Quirinale”: suggerendo ai propri lettori che un qualunque appello di propaganda antiberlusconiano organizzato da un quotidiano sia un attacco personale nei loro confronti e nei confronti dei loro diritti. Che possono sentirsene riguardati, e minacciati. E i lettori si offendono, irritano e firmano a loro volta.
Un caso esemplare era stato quello di poche settimane fa, quando una direttiva ai propri dipendenti della Commissione Europea aveva suggerito che nelle formule augurali si tenesse conto che non tutti i destinatari siano cristiani (indicazione che da anni è data da molte istituzioni e aziende mondiali): e la cosa è stata vissuta da molti che non c’entravano niente – aizzati da propaganda politica e allarmismo giornalistico – come un attacco al loro modo di fare gli auguri, di vivere il Natale, di vivere in generale: “ci stanno rubando il Natale”, per fare proprie le conseguenze – e il vittimismo protagonista – di una direttiva che non avrebbe influito nemmeno per un secondo sulle giornate di nessuno di noi (tanto ha funzionato il meccanismo di dirsi perseguitati, che la Commissione ha persino ritirato la direttiva, intimidita dalle attenzioni impensate).
Oppure pensate alle reazioni insofferenti e indignate nei confronti dei cambiamenti nella lingua adottati singolarmente da alcune persone: che sia uno schwa o un termine qualunque, moltə che non amano queste scelte reagiscono al loro uso da parte di qualcun altro come se fosse stato fatto loro chissà quale torto personale, come se fossero vittime del modo in cui gli altri scelgono di comunicare: come se stessero “rubando loro l’italiano”. Questo benché il mio uso dello schwa qui sopra abbia zero conseguenze sulle loro vite, nemmeno per un istante: anzi, non “benché”, ma proprio per questo; proprio perché non ha nessuna conseguenza, ed è una cosa che avviene e in cui non hanno nessun ruolo (come non ne ho io nel modo in cui decidono di parlare altri), l’unico modo per costruirselo e dirsene perseguitati. Quello schwa è contro di loro.
Le cose devono riguardarci (“con i nostri soldi” è un altro argomento fortissimo per indignarsi e mettersi al centro delle cose): è troppo umiliante pensare il contrario, e troppo attraente la necessità di partecipare, esserci, avere titolo per dire la propria, esistere. E quando questo titolo non c’è – spesso -, il titolo di vittima è quello più a portata di mano: anche quando è implausibile, perché “si comincia così e poi vedrete…”. Lo sa benissimo chi aizza strumentalmente in questa direzione, mentre chissà se se ne accorge chi si dice vittima ogni giorno di mille cose e intanto ogni giorno è ancora lì, sano e salvo, col suo cornetto e il suo caffè, ma pronto ad affrontare il mondo che si accanisce contro di lui.