Un po’ di cose sullo schwa, ma soprattutto non sullo schwa

La prima è che l’introduzione dello schwa ha già vinto: non nel senso che resterà ed estenderà il suo uso fino a essere condiviso da tutti, come avviene continuamente con molti termini e novità linguistiche. Quello lo vedremo, avverrà o non avverrà, e non sarà “imposto” né “impedito”. Ha vinto perché è stato uno strumento formidabile per portare moltissime persone a confrontarsi per suo tramite con le questioni importanti che rappresenta. Ne fa parlare, le mette nell’agenda: in modi confusi e spesso polemici e superficiali, come avviene quasi sempre all’inizio con le questioni nuove e sovversive, ma generando un’accelerazione che in quel senso ha funzionato. “Basta che se ne parli”.

La seconda è che questo è avvenuto per un interessante meccanismo psicosociologico. Potremmo infatti lamentarci che di tutti gli aspetti importanti del dibattito sull’inclusività e sui diritti la maggior parte delle persone si concentri su una letterina, una e rovesciata, con agitazioni e coinvolgimenti piuttosto sproporzionatə. Faremmo bene, la dice lunga su quali siano le nostre priorità e le nostre competenze: però è anche saggio prenderne atto. Le questioni linguistiche animano e coinvolgono le persone straordinariamente e sproporzionatamente, e chi si occupa di propaganda e pubblicità fa bene a tenerne conto. Come mai sulla lingua interveniamo tutti e continuamente ritenendoci esperti e specialisti? Perché siamo (assai più di “un popolo di allenatori della nazionale”, considerazione assai maschile, peraltro) un popolo di linguisti: convinti di esserne esperti per due ragioni di fatto indiscutibili. Una ragione è che pratichiamo la lingua quotidianamente, più di ogni altra cosa al mondo (più del calcio), che è il modo più ovvio per sentirsi esperti di qualcosa: la sua pratica. L’altra ragione è la teoria: abbiamo studiato e ci è stata insegnata la lingua più di ogni altra cosa nella vita, cinque anni alle elementari, tre anni alle medie, cinque anni alle superiori. Pensiamo di conoscerla benissimo, con tanta teoria. Ci sentiamo titolati a intervenire, correggere, stabilire, indignarci persino. Con passioni ed eccitazioni figlie del fatto che in quei tredici anni la lingua ci viene insegnata con straordinarie rigidità e schematismi e approcci sanzionatori e moraleggianti (“vergogna! non si dice a me mi!”): un po’ perché l’educazione ritiene che alle menti immature le cose vadano insegnate con rigidità e semplificazioni – in qualunque campo – e che duttilità e creatività debbano venire dopo, un po’ perché la scuola italiana si assegna il compito di dare “regole”, e un po’ perché vivere e pensare sulla base di regole rigide, binarie (giusto/sbagliato, corretto/scorretto) è più facile e umano per tutti, anche per chi insegna, a scapito della conoscenza della complessità.
Quindi usciamo da scuola rigidi, prescrittivi, sanzionatori: il contrario di quello che è la lingua, che esiste con l’obiettivo di comunicare efficacemente e adattarsi a milioni di contesti, sviluppi, occasioni, interlocuzioni diverse.

La terza cosa sono i social network: lo si è detto ormai fino alla noia, ma i social network generano un’abitudine all’intervento, alla partecipazione, al protagonismo, che hanno bisogno di nutrirsi di argomenti e opinioni. Non sempre abbiamo cose da dire sull’argomento in questione, e ogni volta che è così possiamo attingere all’opportunità di dire qualcosa su come l’argomento viene formulato. Sulla lingua usata: di cui siamo grandi esperti, come si sa.

Anche la quarta cosa sono i social network, e torno sullo schwa: uno degli strumenti più efficaci e usati di protagonismo nei tempi contemporanei – non solo sui social network – è il vittimismo. Quando un argomento non ci riguarda, e non avremmo niente da dirne, o da contestare, l’opportunità di farlo ci è offerta dalla possibilità di dircene vittime. Ne ho scritto meglio qui, ma lo schwa ne è un esempio formidabile: tante persone stanno reagendo all’uso dello schwa, da parte di chi lo usa, come se si trattasse di un’offesa personale. È un modo per esserci, a volte consapevole (quando si organizzano petizioni), a volte forse no (quando si sbuffa, o ci si irrita), e questo spiega la sproporzione delle reazioni e anche l’invenzione di obiezioni superficiali e non riflettute.

La quinta cosa è infatti che si dicono delle sciocchezze, sullo schwa: una è che il suono non esista o sia impossibile da pronunciare (è un suono familiarissimo in molti dialetti italiani, in tutta la canzone Napul’è di Pino Daniele, in molte lingue straniere, a cominciare dall’inglese e dal francese, che sono usate da umani come noi). Un’altra è che sia un'”imposizione elitaria”, “a tavolino”, “dall’alto”, come se il governo o un’istituzione avessero sancito l’obbligo di schwa (è successo? direi di no): quello che è successo, invece, è che qualcuno ha iniziato a usarlo e altri hanno seguito, e invece molti no, e a molti non piace e non lo usano. Liberi tutti. Che il suo uso resti, passi, sia limitato, sia diffuso e snobbato insieme, lo diranno i fatti e avverrà naturalmente, come ogni altro sviluppo della lingua (la lingua autolegittima quello che le avviene). Come avviene con qualunque altra novità, come con “apericena”: la narrazione che invece ci sia un “dall’alto” eccetera è completamente priva di fondamento ed è costruita di nuovo per legittimare un vittimismo che altrimenti non saprebbe con chi prendersela e quale sopruso individuare.

E qui c’è la sesta cosa: nessuno sta “imponendo” niente a nessuno. Ma proprio no, mi spiace deludere l’occasione di vittimismo perduta. Nessuno in Italia è stato costretto a usare lo schwa, nessuno ha subito conseguenze sulla sua vita personale a partire dallo schwa (ci saranno eccezioni: programmatori di software che hanno dovuto inserirlo in certe tastiere, cose così) e tutta la protesta e l’indignazione si risolve nel solito “dove andremo a finire”, “si comincia così e poi…”, che sono tipici di ogni avvistamento di qualche novità nella Storia, ma che non sanno esibire nessuna conseguenza reale (ci sono alcune limitate questioni di leggibilità e accessibilità, serie, che è giusto porre e affrontare). Nessuno è obbligato a niente, e nemmeno a leggere i testi in cui qualcun altro ha liberamente scelto di usare lo schwa: né più né meno di come molti editori usano il punto sistematicamente all’interno delle virgolette, ed è una scelta che in molti non condividiamo, e anche con qualche fastidio o curiosità. Ma li leggiamo, e amen: oppure non li leggiamo. No vanitose petizioni.

La settima cosa, conclusiva, è che insomma il dibattito è interessante, ricco, è già stato molto fertile e utile a farci accorgere che esistono delle questioni di diritti, e speriamo prosegua: ma le sue parti eccitate, bellicose, addolorate, apocalittiche, somigliano alle reazioni irritate che alcuni eterosessuali hanno nei confronti dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, e quindi somiglia anche il consiglio: basta non sposarsi con persone dello stesso sesso, non usare lo schwa, e lasciare che chi vuole possa farlo, inoffensivamente. Per la serenità di tutti, che si sta meglio a non innervosirsi per lo schwa.

p.s., ottava cosa: no, non uso lo schwa, appunto, se non per occasionali solidarietà: liberi tutti, per le ragioni raccontate qui.

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